Un sito, persino simpatico: immaginare la fantasia, i colori, il senso del ritmo, il sorriso panoramico tipico del popolo africano alle prese con il rigore teutonico dei ricambi auto e delle componenti delle auto Made in Germany, il tutto per giunta proveniente da un autodemolitore.
Così, agli occhi del lettore appare una ben assortita e pretenziosa pubblicità di un Centro Demolizioni di Pretoria che propone pezzi di ricambio nuovi ed usati per Audi, Mercedes Benz, VW, ma ovviamente lo stesso avviene per le BMW o per le classiche e più popolari Opel e Ford. Cambi, motori, parti elettriche ed elettromagnetiche, ed infine componenti di carrozzeria: e, beninteso, su tutto il perimetro nazionale africano.
Secondo colpo d’occhio, stavolta davvero istituzionale e di prestigio: la VDA (Associazione dei Costruttori tedeschi di auto) e la AAAM (Associazione africana produttori di automobili) danno vita dal 2 al prossimo 4 Dicembre al Quinto German African Business Summit (GABS) a Nairobi. Il primo si tenne del 2015, e quello di questa edizione si incentra sulle politiche di sviluppo del mercato e dell’industria Auto in Africa. Titolo ambizioso: “ Sviluppo della catena di valore dell’industria auto e trasformazione mineraria”. Guarda caso.
Tempi lontani, dunque, quelli nei quali le due potenze ex colonizzatrici (Gran Bretagna e Francia) nell’immediato Dopoguerra letteralmente divisero in due il continente: Rhodesia, SudAfrica, Kenya ed altri Stati rappresentavano la magnificenza britannica al punto che centinaia di migliaia di inglesi senza molte garanzie di futuro a casa loro si imbarcarono per le miniere di talco, diamanti, rame e carbone della parte ex britannica dove la Reale Società ferroviaria stava perimetrando il territorio di nuovi percorsi ferrati.
Ed il Safari Rally (o meglio Queen Rally) creato in onore della neo incoronata Regina Elisabetta fu dagli anni Cinquanta il palcoscenico di un atto di tributo degli ex coloni verso Sua Maestà a Londra; non a caso Michael Edwardes, il leggendario e poco noto salvatore “pro-tempore” dell’Industria automobilistica britannica era solito fare umorismo sulle sue origini coloniali (Edwardes era sudafricano). Va detto che se a salvare temporaneamente il settore industriale auto fu un ex colono, ad insabbiare del tutto la storia e la tradizione auto britannica sono stati i tedeschi, ma questo potrebbe essere persino opinabile e frutto della mia antipatia per il classico doppiogichismo politico di una Nazione che nella sua storia non si è mai fatta amare né nella sua parentesi di grandezza ne’ in quella spesso conseguente della miseria. In entrambe le situazioni la Germania è sempre stata un problema per i suoi dirimpettai.
Anche la Francia post bellica rispose nelle sue ex colonie con il Rally “Bandama” o Costa d’Avorio, ed alla fine degli anni Settanta con la Paris Dakar di Thierry Sabine. Anche se più di qualcuno obbietterà che il segno più incisivo della presenza francese in Africa era da sempre caratterizzata dalla Legione Straniera ma, ancora più poeticamente, dai cosidetti “Peugeottari”: ragazzi nordafricani – persino studenti nelle università francesi – che per arrotondare, seguire un senso dell’avventura ed organizzare il loro rientro componevano delle carovane di vecchie auto usate dall’Europa che da Gibilterra sbarcavano per compiere una transumanza miracolosa verso le punte meridionali dell’Africa attraverso il Sahara; e là le “carrette del deserto” diventavano l’oggetto del desiderio in improvvisati mercati auto. Tempi passati, appunto.
Soprattutto prima che nascesse in Africa la AAAM (Associazione Africana dei Produttori di automobili) che unisce un microcosmo di Marchi piccoli e medi del Continente. Oggi AAAM è molto più di una associazione di settore, è la apripista di un nuovo e promettente mercato dove le proiezioni demografiche e sociali svelano un potenziale di crescita di decine di milioni di nuovi automobilisti il cui inquadramento nel mercato Consumer dipende dalla crescita del reddito medio e dalla costruzione di una vera filiera industriale automotive locale per alzare una media di presenza auto pro-capite che con 42 mezzi ogni 1000 abitanti è la più bassa del mondo.
Tuttavia la speranza e la prospettiva di una rapida crescita automobilistica dura da tempo: allora, cosa ha rallentato fino ad ora un evento da tanto tempo atteso?
L’avvio dell’Unione Europea con le sue magnifiche e progressive sorti ha parzialmente “distratto” il mondo industriale occidentale ed in particolare l’Automotive dall’approccio con un continente che – sono in pochi a ricordarlo – davvero da fine anni Quaranta era indiziato di prospettive di crescita automobilistica che però non si realizzarono nei tempi previsti dai Costruttori.
Ma in realtà a distrarre l’attenzione dell’Occidente industrializzato dallo sviluppare una presenza in Africa furono due condizioni ben specifiche: il rapporto tra produttori europei e Governi sudamericani attraverso il “ponte” politico degli Stati Uniti fino dagli anni Cinquanta; e dalla fine degli anni Ottanta l’apertura delle porte oltreCortina (l’Ex U.R.S.S.) e della Cina che aveva spostato l’asse di interesse delle delocalizzazioni industriali da Sud ad Est del mondo.
Dovevano accadere due condizioni – ahimè catastrofiche – per l’assetto economico occidentale e per i rapporti in corso con il resto del mondo per riportare il continente africano al centro dell’attenzione politica ed industriale: il “Crack Lehman” infiammando improvvisamente il prezzo di mais, riso, cereali, legumi e zucchero avrebbe provocato un improvviso stato di insofferenza e rivolta delle popolazioni della parte nord dell’Africa, da cui partì la cosiddetta “Primavera araba” (in realtà anche africana) preceduta dai fronti di guerra al confine arabo-africano (Kuwait, Iraq, Siria, etc..).
Quindici anni dopo quel Crack l’Africa sa di essere vulnerabile seppure estranea quasi al palcoscenico della grande finanza, perché quel crack ha tolto un 7/8% di PIL nazionale; per risalire la china negli scambi commerciali si è usata la leva della svalutazione di monete e di materie prime per vendere più e meglio. Certamente l’aumento delle materie prime e la scoperta di nuovi tesori in Commodities quali Manganese, Litio, Cobalto, grafite, rame ha giovato non poco all’economia africana.
Ma la produttività e lo sviluppo industriale sono rimasti al palo per lungo tempo, con una disoccupazione importante ed una esplosione del debito pubblico, legata a ricerca di capitali con emissioni obbligazionarie a tassi insostenibili pari da due a quattro volte i rendimenti medi.
La leva degli investimenti cinesi ha portato molto equilibrio, ma ha aumentato la dipendenza dell’Africa da un solo Player mondiale. Tuttavia, che l’interesse della Cina in Africa fosse prevalente nessuno lo metteva in dubbio. Così come il fatto che la Francia – nonostante lo status ormai secolare di ex Colonizzatrice – continuasse a detenere rapporti privilegiati e trattamenti di favore in Europa su molti ambiti commerciali. Segnalo solo per esempio il vantaggio di Parigi sull’etanolo grazie alla valanga di canna da zucchero che proviene dalle ex colonie a prezzi di saldo. Quasi nessuno tuttavia aveva fatto caso alla rapida progressione in Africa di un altro “Big Player” europeo. La Germania.
La Germania rilancia il suo “Mal d’Africa”
Un elemento del tutto nuovo e straordinario è avvenuto nel 2017: la presidenza tedesca al G20 ha promosso “G20 Compact with Africa”, un programma/Summit mirato a far avvicinare gli Stati aderenti al G20 attraverso programmi di sviluppo in Africa.
E, guarda caso, l’Africa a questo punto ha dato vita all’African Continental Free Trade Area (AfCFTA), area di libero scambio continentale pensata per aprire gli scambi tra una popolazione di oltre un miliardo di persone per un PIL combinato di circa 3 trilioni e mezzo di Dollari americani.
In piena vigenza l’ AfCFTA abolirà le barriere commerciali tra 55 Stati africani della Unione.
E’ stato poi il Lockdown del 2020 a determinare il default della Supply Chain Automotive costruita in un quarto di secolo tra Cina ed Occidente. E guarda caso dopo il Lockdown l’economia del continente africano ha ricominciato a crescere su tassi superiori al 3% annuo.
Non appare più dunque così curioso il fatto che proprio Germania e Cina, come veri e propri “Incumbent” continentali, hanno modificato le reciproche strategie – sull’Africa post 2020 – in tema di cooperazione energetica, sfruttamento minerario ed apertura nuovi mercati; e che questo coincida con l’aumento di investimenti anche di radici turche, indiane, russe e statunitensi in Africa: tutte nazioni che la Germania cataloga senza mezzi termini come rivali soprattutto perché sovrappongono le loro attività con quelle tedesche in tema di infrastrutture, in special modo quelle sull’Idrogeno. L’unica nazione che prudentemente la Germania non può trattare come avversaria è la Cina anche perché la metà delle sue imprese ha J.V. nel Paese del Dragone: ecco che nel 2017 nasce il Consorzio Cina/Germania (CSD) per coordinare le reciproche azioni di sviluppo in Africa senza calpestarsi i piedi. Cosa comporta tutto questo in campo Automotive? E dal lato Automotive cos’è l’Africa?
Africa: 55 Stati, una nuova area comune, due Distretti Automotive, un tesoro Aftermarket
L’Africa dei francesi è abbastanza nota, quella degli Inglesi si è ormai persa nei ricordi, quella italiana appartiene quasi solo alle partecipazioni economiche dei nostri Big Player energetici ed agricoli. Quella cinese si è sovrapposta a quella ex inglese nella ricostruzione logistica ed infrastrutturale. L’Africa dell’auto è oggi una realtà della quale la Bruxelles Carbon Zero dovrebbe vergognarsi se e solo se avesse un minimo di decenza : l’UNEP ha recentemente denunciato che da Europa, USA e Giappone arriva ordinariamente almeno il 40% dei modelli vecchi dismessi in Occidente e riciclati in Africa appunto, con punte anche di 5 / 6 milioni di pezzi all’anno) seppure il mercato ha registrato degli interessanti incrementi di domanda; una forte aspettativa di crescita del cosidetto “Kit Retrofit” elettrico che in Africa trova molto più interesse che da noi in Europa.
Questo in un continente che produce mediamente dentro tutto il suo territorio poco più di un milione di auto: oltre 400.000 con il balzo in avanti del Marocco, 600.000 tra Egitto e Africa del Sud. Certo che a parte gli Stabilimenti dei Costruttori esteri i Marchi autoctoni sono davvero un infinitesimo (tra gli altri la Kvm, Innoson, Ghana Turtle, Kantaka, Kiira, e pochi altri) rispetto al resto del mondo.
Per questo il business dei Costruttori ed Importatori oggi si concentra sull’Usato, unica arma al momento per opporsi alla minaccia di espansione dei “soliti” cinesi: così, mentre al momento sono i Costruttori tedeschi a lanciare l’assalto al mercato africano (recente un accordo tra l’associazione dei marchi tedeschi VDA e l’associazione locale AAAM per lo stimolo produttivo e l’avvio di Joint Ventures), il Business dell’Usato e dei ricambi è guidato dai Giapponesi.
Secondo una ricerca di un Dealer locale, il 90% dei veicoli importati in Africa, ad esclusione del SudAfrica, è giapponese, di anzianità media 8 anni, acquistati online a prezzi che vanno dai 6.000 ai 15.000 Dollari.
Ma la situazione vuole cambiare repentinamente: la Brexit ha spostato l’interesse dei Gruppi localizzati in Gran Bretagna, mentre il Covid ha reso necessario ripensare la Supply Chain globale.
Senza contare l’aspetto climatico: tempi di percorrenza interminabili ed aria inquinata del traffico urbano in città come Nairobi, Kampala o Lagos sortiscono effetti negativi anche sulle attività commerciali e sulla qualità della vita delle comunità locali.
Alcuni governi stanno tentando di arginare il fenomeno dell’invasione dell’Usato obsoleto – che genera inquinamento urbano – varando provvedimenti legislativi che limitano l’importazione di auto dal nord del mondo: è il caso del Ghana che nel 2020 ha approvato una normativa che impedisce l’ingresso nel Paese di vetture con più di dieci anni ma la domanda continua a crescere, perché oggi in Africa ci sono 45 auto per ogni mille abitanti contro una media globale di 203; e viene stimato un mercato da 3 milioni di macchine nuove nel 2035. Per i veicoli commerciali leggeri la previsione è di un raddoppio dei volumi già nel 2027, ossia circa 1,8 milioni di unità.
Ma torniamo all’associazione dei marchi tedeschi VDA con la federazione locale AAAM per lo stimolo produttivo e l’avvio di Joint Ventures in Africa: nato nel 2021, proprio dopo il Lockdown, nell’ambito del progetto PartnerAfrica del Ministero federale tedesco per la cooperazione economica e lo sviluppo (BMZ), è reciprocamente vantaggioso: in collaborazione con le strutture locali e regionali, aiuta l’industria automobilistica a migliorare l’accesso a mercati a volte difficili e allo stesso tempo è nell’interesse della politica di sviluppo tedesca migliorare le prospettive locali coinvolgendo il settore privato e creare posti di lavoro sostenibili e una mobilità sostenibile nei paesi partner.
Il Made in Germany licenzia a casa ma assume in Sudafrica?
Per la VDA, la cooperazione con l’Africa si concentra sulle seguenti priorità: espandere la strategia di sostenibilità oltre i prodotti e la produzione per includere fonti energetiche, come e-fuel, e soluzioni di mobilità digitale.
Inoltre, rafforzare la partnership di sviluppo, aumentare il volume degli scambi e degli investimenti e aprire ulteriormente l’accesso al mercato per produttori e fornitori. Altrettanto importante è supportare lo sviluppo di catene di fornitura e valore locali.
Quale è la base di tutto? La previsione che entro il 2035 il continente africano avrà il più grande potenziale di forza lavoro al mondo.
Nel 2019, il volume totale di nuovi veicoli venduti nel mercato africano (autovetture) è stato di 869.000 veicoli.
L’Africa ha un grande potenziale come mercato e luogo di produzione per l’industria automobilistica tedesca. Nel 2019, 62.000 autovetture sono state esportate dalla Germania all’Africa. Il 49% di queste è andato in Sudafrica, il mercato più importante in Africa.
In silenzio sta nascendo un mercato unico africano – Crypto – da 1 miliardo di consumatori
Su tutto questo come potrà l’ AfCFTA fare da volano? L’Area di libero scambio continentale africana (AfCFTA) è stata concepita per stimolare la crescita industriale africana attraverso il commercio intra-africano, ma nonostante il forte appoggio politico, la Germania non è riuscita a spingere l’Unione a superare la soglia dell’1% degli investimenti esteri complessivi confluiti in Africa.
Un problema è che deve essere costruita in Africa la catena di valore e di produttività necessaria a supportare lo sviluppo della produzione e dei consumi. Ovvio che il primo aspetto è quello della Supply Chain. Ma prima ancora del modello organizzativo logistico, ritengo che l’industria tedesca ed europea sia attratta da una ipotesi quasi rivoluzionaria: quella che AfCFTA possa diventare la prima area di libero scambio regolata in Cryptovaluta, esperimento impossibile dati i tempi all’epoca dell’Euro. Non a caso mentre l’Occidente nel 2020 era bloccato a fare vaccini, l’Africa sperimentava il primo vero boom di transazioni elettroniche di e-payments che superarono del 300% quelle del quinquennio precedente con un valore di 15 miliardi di USD, con previsione di 39 miliardi nel 2025.
Non esiste programmazione industriale, logistica, commerciale pensata dagli investitori in Africa che non implichi una modalità di transazione on line e tramite blockchain “Commodities Linked” peraltro, visto il sottostante di materie prime a garanzia. E’ questa la vera forza della Cryptocorrentizzazione delle transazioni in Africa, grazie alla prerogativa stabilita dalla CFTC (Commodity Futures Trading Commission di Washington) che ritiene che tutte le valute virtuali e i loro derivati siano materie prime e rientrino nella sua giurisdizione. Secondo la definizione, una cripto-merce può essere qualsiasi cosa il cui valore venga trasferito a un token, il che è chiamato tokenizzazione. Alla piattaforma di base legata alle transazioni in valuta Blockchain si potranno legare le altre piattaforme Blockchain non finanziarie su cui, guarda caso, la Germania dell’auto è la più forte sperimentatrice ad oggi con l’alibi del monitoraggio della decarbonizzazione.
E sebbene le catene del valore regionali africane siano ancora agli inizi, gli investitori tedeschi possono adottare un approccio ecosistemico per investire in Africa, anticipando i vari input di cui un ecosistema maturo avrà bisogno e investendo nella loro produzione: non a caso è tutta l’industria tedesca che sta investendo in Africa a livello multisettoriale: i colossi tedeschi della logistica, dei trasporti, della connettività, dell’ICT sta affiancando l’Industria classica nella “rimappatura” del continente africano.
E che l’Africa sia in attesa della Germania lo attesta un recente comunicato istituzionale: “La Germania è la più grande economia in Europa e la quarta più grande al mondo. Nel 2021, il commercio era circa l’89% del PIL tedesco , con le sue esportazioni di beni e servizi a un sano 47% . Nel 2022, la Germania ha esportato macchinari e parti per un valore di 429 miliardi di dollari USA con i codici 84 e 85 del Sistema armonizzato (HS). Ha anche esportato veicoli per un valore di 257,5 miliardi di dollari USA con il codice HS 87 nello stesso anno. La Germania è leader mondiale nella produzione industriale e il suo settore industriale è stato il 26,6% della sua produzione economica nel 2021. Per molti versi, la Germania è un modello per le ambizioni di crescita industriale dell’Africa.”
La Germania che genera allarme in Europa dunque è stata un importante sostenitore dell’AfCFTA. Su incarico del suo Ministero federale per la cooperazione e lo sviluppo economico (BMZ), il suo braccio esecutivo, la Deutsche Gesellschaft für Internationale Zusammenarbeit (GIZ) GmbH, ha prefigurato un programma iniziato ad agosto 2020 e proseguito fino ad agosto 2024.
Il budget totale del programma a settembre 2022 era di 55 milioni di euro, per la prima fase chiusa ad Agosto e, guarda caso, a metà maggio il Consiglio dei ministri federale tedesco ha deciso di ratificare gli accordi commerciali dell’Unione europea con i paesi africani. Gli accordi regolano in modo duraturo l’accesso illimitato per tutti i paesi africani che ne fanno parte, indipendentemente dal loro status, e ottengono in modo affidabile un accesso senza tariffe e quote al mercato UE. Il parlamento federale tedesco deve ancora approvare la ratifica.
Il governo federale tedesco ha ora avviato la ratifica tedesca di quattro accordi commerciali UE con paesi africani. I cosiddetti accordi di partenariato economico (EPA) pongono le relazioni commerciali dell’UE con diversi paesi partner africani in modo duraturo allo stesso livello. I paesi interessati sono Costa d’Avorio, Ghana, Camerun e la Comunità per lo sviluppo dell’Africa australe (SADC). Gli accordi sono già stati firmati dai partner africani e sono stati applicati da un po’ di tempo, ma per entrare formalmente in vigore, devono ancora essere ratificati da tutti gli Stati membri europei. Ora il Parlamento federale tedesco deve approvare le leggi contrattuali sulla ratifica.
Gli accordi commerciali consentono un accesso illimitato al mercato UE e regolano contrattualmente l’accesso illimitato per tutti i paesi africani che fanno parte dell’accordo su base duratura, indipendentemente dal loro status, e ricevono in modo affidabile un accesso esente da dazi e quote al mercato UE.
Da parte loro, riducono gradualmente le tariffe per una quota importante di prodotti importati dall’UE. Ciò può aiutare a colmare le lacune di fornitura e a rendere i prodotti più economici per i consumatori e le imprese di ulteriore trasformazione a livello locale.
Con fasi di transizione particolarmente lunghe e misure protettive, ad esempio per l’agricoltura locale o prodotti con un potenziale speciale per il valore aggiunto locale, gli accordi tengono conto della situazione economica dei paesi partner africani.
Germania Bi-fronte: in crisi a casa sua, in espansione in Africa. Come mai?
In termini di cooperazione allo sviluppo, oltre allo scambio tra il continente africano e quello europeo, la Germania sta supportando il commercio all’interno dell’Africa e l’integrazione economica del continente. Pertanto, come uno dei maggiori promotori internazionali, la Germania sta fortemente sostenendo l’implementazione dell’African Continental Free Trade Area (AfCFTA).
Insomma, avete capito? Il Paese più interessato all’Africa preme politicamente perché la UE abolisca il sistema dei dazi commerciali da e per gli scambi commerciali con l’Africa; dunque i consumatori/contribuenti europei troveranno più merci made in Africa sugli scaffali, mentre i benefici di crescita e reddito sul territorio africano faranno da supporto alla crescita economica ed industriale della Germania in quel continente: Germania che, giova ricordare, mentre ancora l’Unione era impantanata nel rigore del Ministro delle Finanze Scheulble, diventava il secondo Partner commerciale del Sudafrica dopo Cina e prima degli Stati Uniti.
Quella Germania che chiude Stabilimenti a casa e in Spagna, che fa saltare Stabilimenti di BOSCH ed altri Subfornitori è presente in Sudafrica con Impianti ed Uffici di BASF, Bayer, Bilfinger Berger, BMW, DHL, Deutsche Bank, Lanxess, Mercedes Benz, MTU, SAP, Siemens, ThyssenKrupp e Volkswagen.
Le circa 600 aziende tedesche stabilite in Sudafrica hanno creato oltre 100.000 posti di lavoro, ma guarda caso la disoccupazione in Germania diventa un problema europeo. Oltre ai tradizionali settori economici per cui il Sudafrica è rinomato, nuove industrie come il settore energetico e infrastrutturale, l’industria dell’informazione e delle telecomunicazioni, la tecnologia pulita e il mercato sanitario sono considerati mercati futuri interessanti per le aziende tedesche.
Ma non sarà sfuggito il titolo provocatorio del nostro articolo: tutto questo a spese della UE? Siamo maligni?
No, perché il “G.G.A.E. – Global Gteway Africa Europe” è un programma minestrone nato in conseguenza per favorire transizione ecologica, connettività, aumentare l’offerta di formazione e posti di lavoro con ben 150 miliardi di Euro di fondi pubblici di prossimi investimenti. Peccato che il territorio di finalizzazione più che un mercato partner dell’Europa sia una sorta di spartizione: Francia a Nord e Germania a Sud.
Anche il “Progetto Nexus” si polarizza sulla partnership tra UE ed Africa sul tema della transizione ecologica ed energetica, ma è finanziato da Stiftung Mercator, una delle più grandi fondazioni private in Germania e non da fondi pubblici. Tutto questo fa tornare in mente l’affermazione di Henning Kagermann, presidente della Piattaforma nazionale tedesca per la mobilità elettrica:”La questione cruciale non è più se entreremo in una nuova era della mobilità, ma quale ruolo la Germania vi svolgerà”.
Perché i produttori di automobili tedeschi sono già presenti nel continente africano; grandi produttori tedeschi come Volkswagen, Mercedes-Benz, e BMW hanno sedi in Africa e producono quasi il 90% delle autovetture prodotte in Sudafrica.
Marocco, Sudafrica ed Egitto sono nell’elenco dei maggiori produttori di automobili dell’Africa. Volkswagen ha aperto un nuovo stabilimento di assemblaggio di veicoli ad Accra, in Ghana, a marzo 2023 con una capacità di assemblaggio di 5000 unità all’anno.
Nel frattempo, visto che il reddito annuo della classe media in Africa non è ancora sufficiente a consentire una diffusione a largo raggio (a parte Marocco, Sudafrica e Tunisia la media africana fatica a superare la soglia degli ottomila USD all’anno procapite) per vetture che su base importazione da nuovo costano a partire da 20.000 USD. Non a caso in Africa per ora è esploso il mercato del Noleggio previsto nel 2024 con un volume di affari di 3,93 miliardi di Dollari e di oltre cinque miliardi entro il 2030 con un volume utenza di quasi 130 milioni di africani. Sarà il Noleggio, anche, a favorire la costruzione di un tessuto commerciale e di vendita a partire dall’ ecommerce. Il primo Big Player tedesco a favorire Car Sharing e noleggi Captive in Africa è stata Volkswagen, che ha anche stretto una J.V. con Siemens per il monitoraggio delle auto elettriche a nolo di Wolfsbung in Africa.
(Fine Prima Parte – Segue)
Riccardo Bellumori