Picchio Motorsport: una Cisitalia nel Piceno?

“Ingegner Savonuzzi: voglio una nuova auto, che sia comoda e spaziosa come la mia Buick, veloce come una Maserati ed economica come una Fiat!!”

Questa lista di desiderata è del 1946, quasi ottanta anni fa, e parte da Torino; in particolare da Corso Peschiera, sede della CisitaliaSpa. 

Una realtà creata da Piero Dusio (per tanti anni chiamato ancora “”quello delle biciclette” poiche’ nel suo Stabilimento aveva iniziato a costruire telai di bici “Beltramo” per aiutare un vecchio amico al quale le truppe nazifasciste avevano devastato l’impianto originario a Via Lessona) per lanciare il business nel nascente mondo della mobilità motorizzata post bellica.

Ancora produttore di bici e di tessuti, Piero Dusio decide di partire con il piede giusto, e chiama vicino a lui il miglior consulente del tempo in tema automotive: il primo straordinario consigliere di Dusio è Piero Taruffi che inventa la geniale “D46” monoposto, prima auto con telaio a traliccio in tubi di concetto aeronautico, carrozzeria in alluminio delle Officine Motto, motore Fiat 1100 (e tante componenti derivate dalla serie per risparmiare) che sarà destinata a far ripartire le corse nel Dopoguerra; e proprio Taruffi suggerisce a Dusio di mettere sotto contratto un giovane genio in casa Fiat. Dante Giacosa. Con un preludio così, il futuro roseo sarebbe una conseguenza ovvia, ma dentro Dusio rimane il virus delle corse.

Ed infatti, nel corso della storia di Cisitalia quel virus sarà letale per Dusio, che nel frattempo lancia a Savonuzzi (e ad un Dante Giacosa già dimissionario per contrasto insanabile) la sfida elencata in tre parole poco sopra, quella di un’auto geniale e diversa da tutti.

Lo sarà, visto che unendo due telai della “D46” disegnata da Giacosa e usando lo stesso piccolo Fiat 1100 da 60 Cavalli la nuova “202” Spider sarà un “crack” sportivo alla Mille Miglia del 1947; e che sotto le mani di Battista “Pinin” Farina la versione berlina coupè chiusa diventerà la prima auto esposta al Moma di New York.

Peccato che l’ossessione di Dusio per le corse e il desiderio di essere nella nuova categoria della Formula Uno dal 1950 porterà l’Azienda alla rovina, portando dentro Corso Peschiera tuttavia, in corso di soli quattro anni, il “Gotha” della intelligenza e capacità automobilistica del tempo: all’inizio ci sono tutti: Taruffi, Giacosa, Savonuzzi, Abarth e dunque persino Ferry Porsche. 

Che lavorano spalla a spalla con abili artigiani esperti in sagomatura e lavorazione di tubi e pannelli in alluminio, in elaborazione di motori, di saldature. Gente operaia che suda dieci ore al giorno pur di realizzare il sogno. Purtroppo a tradirli è l’orgoglio e la presunzione del capo, o meglio del Gran Capo Dusio: ricchissimo e capace di vendere frigoriferi al Polo Nord spacciandoli per miniappartamenti monolocale impermeabilizzati ed isolati dal ghiaccio esterno, Dusio non ha problemi a piazzare con le sue sole risorse personali una quarantina di “D46” in giro per il mondo. 

E quelle fanno da Bancomat per le opere successive.

Solo che Dusio fa passi più lunghi delle gambe: contro i suggerimenti e gli ammonimenti di Dante Giacosa (che ha vissuto il fallimento della SPA – Società Produzione Automobili – di Torino) a non accelerare i tempi e di aspettare la vendita di un lotto previsto di almeno cento D46 per attrezzare l’impianto di Corso Peschiera a produrre in casa la “202” (le cui lavorazioni erano per il 70% svolte all’esterno), Piero decide prima di anticipare l’uscita della stessa 202 e poi si lancia nel folle progetto della “360 Grand Prix” di F.1. 

E cade nel baratro.

NEL PICENO LA FABBRICA DEI SOGNI

1989: cambia lo scenario, e dalle lontane cime delle Alpi piemontesi si passa al panorama brullo e ruvido del Piceno. Non è un costruttore di bici il protagonista, ma un ancora giovane e brillante Ingegnere di Ascoli: Francesco Di Pietrantonio all’epoca si occupa attivamente di promozione di imprenditoria giovanile, e dobbiamo anche a lui se da metà anni Ottanta la demografia aziendale nel distretto Marchigiano, Abruzzese e dintorni è cresciuto. 

Francesco raccoglie, non senza qualche suggestione, l’idea di un gruppo di allievi di costruire una “minicar”: strategia di marketing, ricerche su campione ed interviste, e Business Plan sono a favore.

Una minicar omologata come “triciclo” anche per la guida degli adolescenti troverebbe l’interesse dei ragazzi e il favore dei genitori liberati dal timore della pericolosità insita in cinquantini e minimoto che all’epoca diventavano sempre più veloci ed impegnativi.

Fatto il prototipo, l’assetto a tre ruote in stile Morgan e il baricentro tutto all’anteriore dove campeggia un bellissimo V2 Moto Guzzi porta ad un interessante ma eccessivo sovrasterzo, dunque la minicar tende a “scodare” un po’ troppo, elemento pregiudizievole per un eventuale acquisto.

Ma sapete di quale periodo stiamo parlando? Di un periodo in cui il più moderato e cauto imprenditore di auto nuove non avrebbe mosso un dito per fare qualcosa che non avesse le sembianze di una F.1 o di un prototipo Gruppo C, e che non sviluppasse almeno 300 cv. Bugatti, Cizeta, Iso Grifo 90, ed altre realizzazioni nuove facevano il paio con Lambo Diablo, nuova e più aggressiva Gamma Ferrari. E certo Lotus, De Tomaso ed altri piccoli Costruttori non stavano a guardare.

Chi lo avrebbe mai detto che poteva nascere un progetto di auto su base minicar?? Si doveva essere davvero alternativi per idee del genere. Un po’ come a Corso Peschiera nel 1946. 

Francesco Di Pietrantonio si mette in cerca di un consulente Automotive in grado di risolvere il problema dinamico della 3 ruote made in Ascoli. Certamente non si nega il meglio: punta diretto ad un monumento dell’ingegneria automobilistica. Francesco decide di animare un piccolo convoglio e parte all’alba dal Piceno per approdare in terra di Chianti. 

Va al Mugello, dove all’epoca Giotto Bizzarrini lavorava in una piccola “factory” con annesso ufficio, per sviluppare tra l’altro il progetto di F.3 che in quel momento era attivo.

 

Il primo incontro non è dei più favorevoli: chiarita la esigenza da parte del drappello di avventurosi neo imprenditori di risolvere un problema alla simil-Morgan, appena Giotto comprende che trattasi di una tre ruote accompagna con cortese vigore i visitatori alla porta……All’improvviso, anche per ribaltare una possibile figuraccia, Francesco lancia la controproposta di affrontare in caso la realizzazione di una quattro ruote sportiva. 

Di colpo, gli animi si rasserenano. E comincia un leale e onorevole confronto tra uomini.

Francesco, a capo del drappello di eroici neo imprenditori, si mette a totale disposizione di Bizzarrini: sa che le sue competenze sono infinitesimali rispetto a quelle del genio livornese; dall’altro lato Giotto è e rimane da sempre un genio dal grande cuore. Quello che, lo abbiamo scritto su Autoprove, ha aiutato decine di giovani piloti di auto e moto testando al banco prova motori, o elaborando parti meccaniche senza chiedere una lira. 

Lui rimane un antagonista del “così fan tutti”: contro un drappello di ragazzi desiderosi di fare ma ignari di quel che occorre fare, Giotto potrebbe ripetere le cifre e le proposte economiche lanciate da tanti altri professionisti di rango che all’epoca proponevano progetti automobilistici sportivi: nomi attualmente Francesco non ne fa, ma se ci parli un poco te li fa capire…

Invece Giotto decide, affettuosamente, di adottare quei ragazzi, come ha fatto con gli studenti di Ingegneria e con tutti coloro che si sono rivolti a lui per una consulenza. Lui che poteva essere un Dirigente predestinato all’Alfa Romeo al Portello dove era entrato nel 1955, ha invece dovuto girare come gironi danteschi il mondo industriale che contava: Ferrari, ASA, Iso Rivolta, per poi diventare un Costruttore autonomo. E pagare pegno, perché come diceva sempre lui “per colpa dei capetti” si era dovuto fare una ragione del fatto che non poteva esistere Giotto Bizzarrini nel mondo dei Dipendenti con Busta Paga, ferie e signorine dell’Amministrazione contabile che risolvono tutto. 

 

Infinito ed inarrivabile, Giotto parlava di sé attraverso matita, regolo calcolatore, saldatrice, troncatubi e frullini. Era un artigiano tecnicizzato e cattedratico, che poteva risolvere ogni problema tranne uno. Il suo caratteraccio. Ma intanto al suo cospetto c’era Francesco: che, consapevole come Dusio di aver trovato in Taruffi il miglior consulente dell’epoca, in quel fine anni Ottanta sa di aver messo in Squadra il “Mister” ideale per il progetto della vita, e che gli cambierà la vita.

In quella tarda mattina al Mugello Giotto Bizzarrini, sessantatreanni e ancora voglia di lavorare, diventa la “chioccia” di una impresa futura. La “Picchio” di Ascoli. Ne parlerà pochi anni dopo, Giotto: i creditori che bussavano alla porta, i sequestri, i sacrifici, e prima di tutto amore e legame con la famiglia. Della quale, per diversi mesi, fecero parte anche quelli della Picchio.

Giotto Bizzarrini, in pochi giorni, elabora il suo piano per un prototipo di berlinetta all’italiana compatta come una Lotus, bella come Jaguar Xj 220, veloce come una Ferrari e motorizzata con un propulsore che, al contrario dei V6, V8 e V12 della concorrenza più blasonata e costosa, è agonisticamente micidiale (il Turbo della Delta HF) e però può essere alla portata di tanti. 

Eccolo, il secondo punto di unione tra Ascoli e Corso Peschiera, sede Cisitalia. Un “jolly” a quattro ruote capace di riassumere il meglio del tempo.

Ma “Tanti” chi? Ecco che si configura il terzo punto di incontro con la storia di Dusio e dello Stambecco di Torino (il marchio Cisitalia): il cliente ideale di Picchio diventa quello iconico per Giotto; è il professionista, l’appassionato, il cultore che non si fa scrupolo di andare in autostrada veloce da Lunedì a Venerdì ma che nel Weekend toglie targhe, quel po’ di materiale di comfort, le targhe e con le Slick e l’assetto modificato scende in pista.

Quel modello di Cliente si è rarefatto lungo trenta anni, ma in fondo è meglio così: pochi, pochissimi  ma buoni.

Un Cliente della Picchio non è un Cliente: è parte del Team, dello Staff e contribuisce a migliorare ogni giorno il prodotto con modifiche e migliorie di cui lui stesso si avvantaggia. 

Questo è “circle of Life” dentro Picchio.

Torniamo a Giotto: a parte le trasferte verso Ascoli Piceno, dove la “Picchio” improvvisata si insedia con attrezzature e strutture ancora embrionali, il lavoro su “LaPrima” (ci consentirà Francesco di denominare così per brevità il prototipo fatto per la Picchio ad immagine e somiglianza di Bizzarrini) viene svolto tra Mugello e la residenza che in quel periodo Giotto usava a Piancastagnaio.

Una bella villa, con rampa di accesso in discesa, in una zona tranquilla; lo spazio a disposizione con piccoli prefabbricati di servizio officina al chiuso è tanto, e nel cortile frontale aperto si trovano diverse immagini iconiche di Giotto impegnato sulla maschera in fiberglass lavorato pazientemente con l’aiuto prezioso di Pietro (suo figlio) e della magica e straordinaria moglie Rosanna, la compagna di una vita.

Prende così forma “LaPrima”, tra Piancastagnaio e Ascoli. E come sempre, il tratto distintivo di Giotto è in parte quello di Giacosa: il tecnigrafo e i piani di sezione e di linea sono sempre “a prescindere” dall’occhio del genio artigianale che lavorando da se’e con le sue mani la materia di base (all’epoca tondino di ferro e saldatrice, frullino; polistirolo e vetroresina) riesce con lo sviluppo tridimensionale a modificare in corso d’opera per migliorare la dinamica e l’aspetto formale dell’opera. Ricordiamoli, quella fine anni Ottanta: niente Internet, e solo le Grandissime imprese potevano contare sulle prime ISDN telefoniche. 

Ma di trasmissione dati che non fossero solo “caratteri” non se ne parlava. Le immagini correvano via Fax a meno di non essere la Honda che faceva rimbalzare ogni notte – con cargo aereo riservato – i mega Dischi di Backup dati da una costa all’altra di Giappone e Stati Uniti dove aveva ben due Centri progettazione.

CAD e CAM all’epoca erano americanate che Francesco conobbe grazie alla esperienza di Giuseppe Bizzarrini, altro figlio di Giotto ed a sua volta Ingegnere. Il clay, addirittura, in Italia era da pochissimo arrivato dopo decenni di lavoro con la resina. Che tuttavia restava il materiale più difficile da lavorare e dunque il preferito dal genio livornese, guarda caso!!!

 

E quale era il “CAD” di Giotto Bizzarrini? Il suo occhio tecnico ed insieme artistico.

E il “CAM”? Detto con affetto e nostalgia da Francesco, il CAM di Bizzarrini era il suo corpo: le mani e l’orecchio per modificare i motori, l’occhio e le mani per lavorare in presa diretta i materiali di forma, e le mani ed il ginocchio per sagomare tondini e tubi quadri di telaio.

A trovarlo, nel mondo e nella storia, un altro così. Anzi, un altro c’era: Piero Taruffi, il genio di Cisitalia.

Quando Giotto completa il prototipo marciante de “LaPrima”, Francesco e soci capiscono di avere davanti un miracolo di ingegno: telaio e carrozzeria cooperano per la rigidità, l’auto è bassa ma con una cellula abitacolo spaziosa e un parabrezza gigantesco e panoramico, qualcosa di mai visto prima su una pseudo stradale. Perché “LaPrima” è per la strada e per lo sport: lo dice l’alettone posteriore regolabile in incidenza, lo dicono i doppi attacchi per le sospensioni in modo da separare assetto stradale da agonistico, e lo dicono le gomme slick; lo dice il posto guida e la strumentazione, che a comporla e scomporla un proprietario ci si divertirà un mondo ad allestire la “sua” supercar da pista.

Lo dice anche il motore della Delta Turbo che Giotto ha rielaborato ricavando prestazioni ed utilizzazione che forse neppure a Borgo San Paolo sapevano di poter tirare fuori da quel motore.

“LaPrima” dunque è davvero erede del concetto con cui erano nate, a Torino, le “D46” e le “202”: permettere a tutti di correre e di usare l’auto per tutti i giorni. Concetto desueto sia negli anni Cinquanta che in quella fine anni Ottanta.

Giotto in quel momento, e il trio Taruffi/Giacosa/Savonuzzi all’epoca, erano riusciti tra i pochi a conquistarlo per una moltitudine di potenziali Clienti.

Nel 1991, quando il mondo ha occhi rivolti verso il futuro del Kuwait liberato dalle truppe irachene, e quando l’Italia inizia il suo percorso di rivoluzione politica che poi tracimerà con “Mani Pulite” Giotto e i suoi allievi della Picchio si ritrovano sul circuito per i primi vagiti de “LaPrima”.

LA SVOLTA INDUSTRIALE

Un piccolo passo, primo passo, per la svolta industriale della “Picchio”.
Da quella, con lavorazione CAD e modelli matematici, deriveranno un prototipo per versione puramente stradale de “LaPrima” (un modello in 3D scala reale in vetroresina di colore giallo è ancora esposto ad Ancarano) e la famosa “Barchetta rossa” che poi, con le modifiche anteriori e la celeberrima “Ala” di Giotto e Francesco diventerà la base iconica per le Barchette della prima era.

In particolare quella griffata Martini e guidata tra gli altri dal “Nuvolari” approdato nel Piceno: così come Dusio e la Cisitaliafecero arrivare a corte un grande eroe nella sua fase finale di carriera, Tazio Nuvolari; così fu un vanto e motivo di orgoglio per la “Picchio” scrivere sulla carena il nome di un’altra leggenda dei tempi moderni. Il nome di Arturio Merzario.

Riccardo Bellumori

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