Ci sono auto, e poi ci sono “Le Auto”: nel mio caso, e per la mia personale classifica considero quelle che appartengono alla produzione artigianale e industriale dagli anni Sessanta in poi (per le quattro ruote prodotte prima del secondo conflitto occorre fare un elenco a parte) e che partono con la Cisitalia D46, passando per la Bizzarrini – Iso A3/C, la Oldsmobile Toronado, e via via con Citroen Cx, Lancia 037, Aston Martin Lagonda, etc…. Ce ne sono trenta, di “Le Auto” che sono incastonate nel cuore e nella mia memoria e che creano un particolare “Albo d’Oro”.
E non completo l’elenco proprio per non tediare la platea; ma di due cose sono sicuro: la prima è che dalla basilare età della mia ragione (databile intorno agli anni Settanta) a partire dai cinque/sei anni, la presenza mediatica delle supercar e delle auto da sogno era relegata solo alle presentazioni specializzate nelle Riviste, mentre il supporto televisivo era ancora lontano, perlomeno in Italia; motivo per il quale gli oggetti di culto automobilistico venivano consumati con gli occhi sulle immagini fotografiche di giornali e pagine patinate dei periodici.
Ed ovviamente bambini ed adolescenti, quando potevano, ritagliavano con cura le foto delle loro beniamine prima della cestinatura dei rotocalchi. E dunque per tantissimi che, come me, non avevano le risorse per seguire i loro sogni direttamente ai Saloni dell’Auto, l’effetto dirompente per innamorarsi di una dea a quattro ruote partiva sempre da una foto.
La seconda è che dei “Mostri sacri” che hanno colorato la mia fantasia è stato assente per decenni Francesco Scaglione, che ho avuto interesse e piacere di scoprire e studiare solo dopo la sua scomparsa nel 1993.
Eppure Vi giuro che la prima dea a quattro ruote che mi è rimasta nel cuore nella mia vita, la prima per la quale ho avuto un sobbalzo nel vederne le immagini in foto, è stata la “Intermeccanica Indra”. Praticamente sconosciuta ai più per quattro motivi sovrapposti: perché è stata disegnata da Scaglione, perché è di oltre mezzo secolo fa, perché è una Supercar condizionata dall’immagine e dalla risonanza di un Marchio glorioso ma davvero piccolo e rimasto nel limbo della conoscenza e del gradimento di massa. Aggiungerei per ultimo un pregiudizio legato alla narrazione di alcune vicende dalla veridicità tutta da chiarire e comprovare ma dalle tinte purtroppo non rosee, e delle quali accennerò in calce e brevemente.
Il primo Amore non si scorda mai: vedere una “Indra” a otto anni!
Ma la prima cosa, per parlarVi della Intermeccanica, è ricordarVi che Autoprove ne ha scritto un anno fa proprio nell’interesse di raccontare una meteora, bellissima e luminosa, che segna una storia unica ed avventurosa.
Ma di questa storia prendiamo il pezzo “quasi” preliminare alla fine della vicenda commerciale del Marchio torinese: dopo aver creato alla fine degli anni Cinquanta il Marchio “Intermeccanica” tra i sedili di una Fiat 500 (usata per percorrere il Vecchio Continente in cerca di pubblicità per i Kit di preparazione ed elaborazione di auto di serie) Frank e Paula Reisner avevano cominciato una serie di collaborazioni, sull’altalena delle difficoltà tipiche di chi inizia un Business, partendo dalla gloriosa “IMP 500” realizzata insieme alla Steyr Puch; fondamentalmente il pezzo forte della Intermeccanica di Reisner era il concetto telaistico e l’architettura infrastrutturale che permetteva alloggiamento ed utilizzo pieno dei grandi V8 americani, una dinamica stradale ottima, e la possibilità di vestire lo chassis, nel Distretto torinese, grazie alla maestria dei battilastra e degli artigiani del tempo disseminati un po’ ovunque nella periferia sabauda.
In verità l’arte italiana doveva alla fine prendere posizione non solo sulla realizzazione delle carrozzerie ma anche sul suo disegno: la prima “Apollo” (non ancora marchiata Intermeccanica) di Ron Plescia aveva una linea a tal punto discutibile per i gusti europei che il patron Frank Reisner si era dovuto rivolgere ad un vero e proprio genio dello stile, in quel momento approdato alla libera professione. Si trattava del Maestro Franco Scaglione.
Una avventura romantica: nasce Intermeccanica
Il fiore all’occhiello del Marchio del Toro rampante sarebbe diventata proprio la sua firma di stile eccellente e onirica; e da allora il Maestro firma altre creature Intermeccanicacontinuando ovviamente la sua attività libero professionale anche per altri Committenti.
(P.S. In tutto questo, non smetto mai di ribadirlo, voglio conoscere chi, senza sentito dire, ha il coraggio di continuare ad attribuire ad una mano divina come quella di Scaglione quella “cosa” che si chiama Murena: lasciate perdere il fatto che io la trovo bellissima; ma non può venire dalla stessa mano del maestro).
Si arriva al boom della “Italia” – Best Seller a partire dal 1967 – e Genser and Forman Inc., importatore Triumph in America ed Erich Bitter, Imprenditore in Germania diventano supporti commerciali per l’ingresso ed il rafforzamento di Intermeccanica negli USA, in Germania e parte dell’Europa.
Ma quello che accade ancora più clamorosamente è che Bob Lutz, all’epoca Direttore Commerciale, ha l’obbiettivo di costruire dentro Opel una immagine sportiva moderna che, per inciso, permetta al Marchio di Russelheim di continuare un singolare “copia e incolla” rispetto alle strategie commerciali in ambito sportivo della concorrente “topica” Ford Europa: sarà solo un caso, ma se l’alter ego della Ford Capri si può considerare la “Opel GT”, a livello di primogenite creature casalinghe di ciascuno dei due Marchi – che fino ad allora si erano “limitati” alla elaborazione delle versioni Coupè due porte delle berline familiari di serie – allo stesso modo la Opel viene presa da una sorta di “fibrillazione” collaborativa” con altri piccoli Costruttori europei più o meno sulla falsariga di quanto avviene per la Ford.
La filiale tedesca della General Motors Opel, che a livello di strategie europee per conto di Detroit era la capofila rispetto alla cugina Vauxhall inglese, continua piuttosto morbosamente a darsi da fare su una attitudine che per diversi anni, dalla metà degli anni Sessanta, la impegnava assiduamente: fare “Stalking” su Ford Europa, che invece all’epoca era prettamente ancora governata dalla filiale inglese, per carpirne ed a volte copiarne spudoratamente i passi commerciali.
Non a caso quando la Ford decide di dare al Marchio europeo una immagine più sportiva avviando le sinergie con OSI, LMX o ad esempio AC fornendo le architetture meccaniche europee invece che i classici big Block V8 prima di dare vita alla Capri – prima vera Coupè sportiva di serie nella Gamma Ford nel Vecchio Continente – Opel prova praticamente a fare lo stesso dal suo punto di osservazione: e prima di concepire la “GT” tenta sinergie industriali con Costruttori artigianali, oltre che rifornirne altri come Bizzarrini (che trova molto più economico e vantaggioso equipaggiare la neonata “Europa GT” con il 1900 quattro cilindri di Russelheim al posto del desiderato ma probabilmente più caro e raro Alfa Romeo inizialmente prefigurato.
Bob Lutz, nel suo intento di dare un taglio sportivo all’immagine di Opel, si trova di fronte al progetto “Opel CD” nato alla fine del 1968:
BOB Lutz, Frank Reisner: nitroglicerina!
Il disegno del prototipo è frutto di un genio visionario come Charles Jordan, il padre delle Cadillac a coda di pesce di fine anni ‘50.
Non meno visionario di lui è però Bob Lutz, incaricato di trasformare il Marchio europeo di GM più importante: la Opel, che aveva una spina nel fianco nella Diplomat Mk II, troppo americaneggiante e barocca per avere successo, pur essendo una concorrente diretta e Low Cost di Mercedes, e per questo era nata. Ma nata vecchia e soprattutto nel pieno della crisi energetica, dove i motori sei ed otto cilindri della Ammiraglia erano visti come il malocchio.
Jordan apre alla collaborazione con Holds e da questo nasce la Coupè CD: la base tecnica è quella della Opel DiplomatV8, grossa berlina europea di taglio americaneggiante, ma sul suo chassis un po’ ritoccato grazie al disegno generale di Jordan del Centro Stile Avanzato, con riduzione lunghezza di 30 cm. ed altezza di 110 cm venne sagomata una carrozzeria in fiberglass a due porte, con una serie di complicazioni e raffinatezze stilistiche di difficile applicazione nella produzione in serie, basti pensare al parabrezza a guscio senza montanti che, con un sistema telescopico elettroidraulico interconnesso con l’angolo di apertura delle portiere traslava in avanti per liberare l’ingombro laterale.
L’adozione sul pianale della Diplomat del motore Chevy da 5,4 litri è ovviamente la garanzia di prestazioni fuori dal comune.
Bob Lutz, convinto di volerla mettere in produzione come sportiva europea di GM a marchio Opel, si trova prima a contattare Pietro Frua per un progetto di stile destinato alla produzione (con un prototipo che a causa di mille tira e molla verrà presentato solo nel 1974, ponendolo “fuori dei giochi”); ma contemporaneamente apre anche ad una serie parallela di contatti ed accordi che saranno alla base di alcuni eventi decisamente poco encomiabili di cui daremo cenno; Lutz entra così in contatto con Erich Bitter, che già impegnato come Importatore e Distributore di Opel e con un trascorso da Pilota agonistico, decide di avviare una attività come piccolo Costruttore per una berlinetta da usare in Gara.
Il contatto iniziale – del 1968 – avviene tra Bitter e Lutz per realizzare la Opel Rekord “Black Widow” da portare in America, che pur correndo solo due Gare è rimasta iconica.
Appena ritirata la Rekord, Bitter decide il salto nella produzione stradale e l’unica potenziale candidata è proprio quella “CD Corvette” rimasta ancora allo stadio di prototipo: detto fatto, Bob Lutz fornisce prototipo, progetto, licenze e tutto quel che serve per consentire ad Erich di organizzare, insieme al carrozziere Bauer, la “Bitter CD” presentata nel 1973.
Ma ancora prima Bob Lutz continua con la sua esplorazione: in fondo Erich Bitter non aveva le dotazioni strutturali per mettere in serie numeri importanti, in quell’inizio del decennio 1970; e la stessa Bauer Karrosserie di Stoccarda era una ditta poco più che artigianale, di elevata capacità manifatturiera ma che si era distinta fino ad allora per la trasformazione in cabriolet e “Targa” di vetturette sportive.
Insomma, per Bob Lutz era probabilmente più rassicurante continuare con le ricerche sul campo, e nel corso del Salone di Torino del 1969 Bob si trova curiosamente ospite di un frugale Stand, quello della Intermeccanica. A favorire il contatto proprio Bitter, che con Reisner aveva concluso un accordo di importazione della “Italia”.
Il clima non è dei migliori, in effetti, tra i responsabili dello Stand del Toro Rampante: la Ford ha deciso da pochi mesi di ridurre il numero dei piccoli Costruttori “serviti” con i suoi motori americani, e di iniziare un percorso di branding sul taglio di auto sportive e di cilindrate medio, sfruttando soprattutto le potenzialità del suo sei cilindri over 2 litri fornito ad Osi e pianificato per la Linx, ad esempio ; ma dal lato dei “Cleveland V8” la Casa di Deaborn ha deciso di concentrare le sue attenzioni direttamente su una nuova creatura commerciale e sportiva: la “De Tomaso” che dal 1969 con la “Vallelunga” inaugura il suo percorso leggendario con le sportive stradali. Per tutti gli altri piccoli Costruttori si preparano periodi di fuoco, e Intermeccanicanon fa differenza. E questo particolare conferma la attitudine del tempo in casa Opel a monitorare e spesso replicare le iniziative di casa Ford.
A portare Lutz da Reisner è proprio Erich Bitter, che assolve così ad un’ansia del suo amico e “boss” nella ricerca di un supporto manifatturiero per la parte telaistica.
In verità infatti l’idea di Lutz sarebbe quella di cercare un artigiano, già imbattutosi nella confezione di gabbie contenenti motori V8 General Motors, in grado di dialogare con il Centro di Design avanzato di Opel per creare una nuova “gabbia” da adottare sui pianali Diplomat CD, rivestita di carrozzeria in fiberglass in misura tale da superare quel sistema di manovellismo del parabrezza.
In quello Stand Bob Lutz si trova di fronte alla Italia IMX, il nuovo concept di Scaglione e di Reisner, in parte evocativo delle sagome della bellissima “Titania Veltro” di due anni prima, ed alla quale si ispirano sia la Opel GT che la “Diplomat CD”.
La considerazione che la coppia Reisner/Scaglione riesce a fare miracoli con budget ridicoli, ed il clamore ottenuto negli Usa dalla “Italia” persuadono Bob che forse è il caso di commissionare a quel duo un progetto intero “chiavi in mano” visto anche che i costi di elaborazione di un nuovo telaio per il pianale Diplomat CD, una nuova “pelle” in fiberglass ed i costi di collaudo ed ottimizzazione potrebbero superare il famigerato telaio elaborato dal geniale Reisner e sempre perfettamente vestito da Scaglione.
Ma forse questo non era nelle premesse di Erich Bitter, quando si rese promotore del contatto. E secondo Voi?
Detto fatto, si parte con la commessa che, tra l’altro, permette alla Intermeccanica di avere nuovo e provvidenziale Cashflow, ed il supporto in chiave di Distribuzione commerciale e di postvendita di Opel in Europa e di GM negli USA. Insomma, per Intermeccanica si vede all’orizzonte una rinascita radiosa. Purtroppo non sarà così.
Nasce la Intermeccanica Indra: benvenuti nel nuovo millennio
L’impronta e l’influenza della “commessa industriale” da parte di un Costruttore globale ad un piccolo Artigiano di grande classe come Intermeccanica si coglie nel percorso evolutivo del modello, presentato nel corso di diversi step nel corpo vettura 2 passeggeri Coupè, fastback 2+2 , Spider / Convertibile 2 posti; e dal taglio esteso delle motorizzazioni previste, che ne danno la evidenza di un modello davvero internazionale: il 6 cilindri in linea Opel da 2,8 litri e 185 Cv (taglio tipicamente europeo, sebbene Opel non fosse assolutamente un riferimento per la clientela sportiva dell’epoca) che apparentemente nasce per riservare agli europei una soluzione meno “assetata” rispetto ai motori made in Usa, in realtà Vi fa anche capire esattamente quel che intendevo poche righe sopra parlando dell’approccio siamese di Russelheim con Colonia (Ford) che aveva iniziato e chiuso un rapporto con la OSI (Torino) e con la Linx(Milano e Torino) sulla base di Coupè motorizzate V6.
Ma il cuore della “Indra” era ovviamente l’agognato – da tanti – Chevy 327 5,4 lt. (V8, 230 cv) al quale Reisner pensò persino di affiancare – sulla fastback 2+2 – un motore “XXL” come il 5.733 cc. (260 cv a 5600 G/min., un piccolo mostro di potenza ma con un tiro da camion). Come spiegheremo in seguito, pochissime unità della “Indra” alla fine del ciclo di produzione saranno equipaggiate dal poderoso “big block” Ford 428 da 7 litri (il Cleveland della celebre Cobra Jet) da 335 Cv e 440 libre di potenza a soli 3400 giri/min., un vero mostro che tuttavia il telaio perfetto e leggero della Indrasaprà sopportare tranquillamente. Ma non era solo questa l’estensione di dotazione, che comprendeva la serie di cambi a disposizione del Cliente finale: cambio manuale a quattro marce, uno a cinque marce e un automatico a tre rapporti per i V8 americani.
Ma non è questo l’aspetto magico e coinvolgente della nuova creatura di casa Intermeccanica, che è qualcosa che supera il grado di giudizio canonico che si può dare per una realizzazione sportiva di quel tempo, al punto da proiettare le sue forme ed i suoi “numeri” direttamente nel futuro.
Eppure, certo, quel Salone di Torino nel quale Reisner e Scaglione incontrano Lutz e Bitter è un concentrato di futuro, con i Designer ed i Marchi italiani a fare da perfetti padroni di casa; ma nel caso di “Indra” si tratta di un futuro “Chiavi in mano” segnato dalla estrema concretezza e dalla natura eclettica dell’opera di Scaglione, con un concetto modulare difficilmente riscontrabile per artigiani e per modelli contemporanei.
Indra è un mondo a parte, è un ponte tra il terreno ed il divino, ed anche per questo è il primo, e purtroppo l’ultimo, prodotto di Intermeccanica denominato come una divinità Indù, la più citata nel Rigveda e celebrata come colei che ha ucciso il grande male, chiamato Vritra, che ha ostacolato la prosperità e la felicità umana. Per questo, nella dottrina, Indra distrugge Vritra e le sue “forze ingannevoli”, e quindi porta pioggia e sole a salvare la sopravvivenza dell’umanità.
Nome non casuale quindi in un’auto che è a sua volta portatrice di nuovi canoni persino “salvifici” nel mercato auto dove Vritra è la crisi energetica, dove il male porta il segno della benzina a prezzi disumani in tutta Europa e delle Domeniche ecologiche a piedi. Intermeccanica Indra arriva a quel punto a dimostrare all’industria sportiva che si può essere potenti e razionali, veloci e leggeri, comodi e sicuri ma non per forza dentro dei transatlantici.
Ed arriva a dimostrare ai tanti piccoli Costruttori artigianali che vengono spazzati via dalla crisi che: “Hey, ragazzi, se ce la facciamo noi di Intermeccanica, potete farcela anche Voi”.
Ecco il messaggio accorato ed appassionato di Frank Reisnered ecco, dall’altra parte, la riscossa storica di Franco Scaglione. Indra è sua, uno dei tanti trofei della carriera leggendaria, ma non solo. Indra nasce proprio, forse, con il Karma del canto del cigno, all’insaputa di tutti.
Il Maestro che, partito volontario in Guerra (chiedendo di essere assegnato al Genio Guastatori) e che – inviato sul fronte libico il 24 dicembre 1941 – viene fatto prigioniero dalla Western Desert Force a el Duda, a sud di Tobruk, viene tenuto prigioniero nel campo di detenzione di Yol, in India, dove rimane fino alla fine del 1946 con migliaia di prigionieri italiani inviati in prigionia alle pendici dell’Himalaya ed ai confini col Tibet.
In quel campo di prigionia affidato ai soldati nepalesi Gurkha sotto il comando degli ufficiali inglesi forse Scaglione si incrocia con connazionali illustri quali il futuro Direttore de “Il Piccolo di Trieste” Chino Alessi, con il futuro Generale Umberto Cappuzzo, il Direttore del quotidiano milanese “La Notte” Nino Nutrizio o con Guglielmo Tagliacarne(cofondatore a Milano della Scuola di perfezionamento in economia aziendale della Bocconi), e molti altri.
Da quel campo (Y.O.L. ovvero Young Officers Leave, cioè Campo di riposo per giovani ufficiali) nato nel 1849 ai piedi delle castene montuose del Dhauladhar, la prigionia era aggravata dalle condizioni ambientali (malaria, degrado, solitudine) e dalla condizione di isolamento, e si ritornava feriti nel fisico e nello spirito.
Anche il Maestro Scaglione ne aveva segretamente serbato segni interiori, umanamente comprensibili. Da quella parentesi indiana, chissà, mi piace voler pensare che l’evocazione del nome “Indra” consacrasse la rivalsa onorevole da quella terribile esperienza bellica.
Indra è dunque, dal lato Intermeccanica, una dimensione nuova meccanica e stilistica anche in rapporto al trend stilistico del tempo, un ponte tra passato classico da onorare e futuro da ricostruire dentro le macerie della crisi energetica.
Per questo la Intermeccanica Indra è un tempio delle nuove tendenze industriali (aerodinamica e leggerezza non solo per la velocità ma anche per l’efficienza energetica, essenzialità formale per la nuova generazione sportiva culturalmente contraria al barocchismo, rapporti dimensionali dove al contenimento delle misure esterne fa da contraltare uno spazio comodo e vivibile all’interno), e tutto questo pensato da un piccolo Costruttore artigianale deve aver preoccupato più di un concorrente.
In Italia un Eldorado dello Stile anni Settanta
Come detto, l’Eldorado stilistico del mondo Auto dalla fine degli anni Sessanta è tricolore ed influenza tutto il mondo: Michelotti e Pietro Frua completano il percorso che li porta a rendere BMW un Marchio Senior, Mercedes vede Bruno Sacco crescere solidamente verso le posizioni decisionali che contano; Paolo Martin stravolge i canoni stilistici inglesi con la “BMC 1800”, Sergio Sartorelli si mette in ottima mostra, mentre un giovane Giugiaro ancora alla Bertone disegna per la Gordon Keeble una delle prime “GT” britanniche pensate per il mercato globale, per poi transitare alla Ghia e fermarsi nella “sua” Italdesign; a sua volta si conferma l’estro magico di Gandini, e si apre e si chiude la leggenda di Pio Manzù. In fondo è un periodo di “penombra” per diverse firme di carrozzeria “storiche” (Ghia, Vignale, Zagato, Boano, etc…) mentre inizia la sfida della “orizzontalità” (Carabo, Manta Italdesign, Stratos Zero) con altezze massime dei tetti prossime al metro da terra; e le linee tipicamente GT delle Lola, delle GT 40, delle Bizzarrini e delle altre derivate dalle Piste lasciano il posto a solide volumetrie tipicamente cuneiformi e spigolose.
Di fronte a tutto questo “Indra” non lascia ipotesi o sospetti di Benchmark “passivo”.
E’ unica e segue un percorso personale del Maestro, che in generale non era certo incline alla scopiazzatura ma al contrario apriva – ahimè, è il destino del Karma – nuovi concetti e nuovi percorsi che all’inizio pochi capivano e che dopo molti seguivano.
Di fatto in questo senso Frank Reisner era il partner ideale, a sua volta eclettico, iconoclasta ed anticonvenzionale quanto basta per comprendere e stimolare nuovi percorsi, il cui profeta diventa oggetto di culto anche in Giappone, da dove un giovane Takeshi Inoue era partito dopo la metà degli anni Sessanta a Torino per imparare direttamente dal “Maestro” l’arte assoluta impressa nella “Hino”.
Nella “Indra” la maestria della bellezza scultorea si accompagna a concetti persino “inconsapevoli” (nel senso che, a chiederglielo, forse il Maestro non avrebbe perso molto tempo a decidere se definirsi “stilista” o “Designer” di auto, visto che ogni Categorizzazione gli andava e gli sarebbe andata sempre stretta) di Design razionale, dove le linee sono frutto di una ricerca estetica unita alla dimensione aerodinamica e velocistica, dati i tempi ed i “diktat” del mondo industriale.
In tutto questo la semplicità intesa come assenza di barocchismi esalta la bellissima complessità del gioco di intersezioni tra linee, piani e volumi.
Ecco perché più passa il tempo e più la “Indra” piace.
Fatta eccezione per quelli come me, a cui non piace. Perchèla adorano punto e basta, e l’adorazione supera ogni forma di gradimento: Indra è persino perfetta nella composizione delle eresie e della dissacrazione regale che Scaglione riesce a compiere sue tre versioni dove – in controtendenza rispetto ad un clichè spesso inevitabile per altre realizzazioni sportive – la “fusion” formale ed il tocco sapiente di Scaglione rendono la Coupè, la 2+2 e la Spider convertibile tre modelli azzeccatissimi nessuno dei quali paga lo scotto di uno squilibrio formale o di una dipendenza dagli altri due corpi vettura; tanto che anche la Fastback 2+2, ultima spiaggia di Intermeccanica per continuare l’onda inizialmente favorevole di un modello che alla sua presentazione a Ginevra 1971 ottenne oltre 150 prenotazioni, non poche visto il periodo (persino Ed Cole, Presidente General Motors, volle far visita allo Stand Intermeccanica per complimentarsi).
La frugalità regale delle linee e della essenza della Dea Indrapoteva come sempre colpire pochi fortunati, e non c’è da meravigliarsi osservando lo stile dell’auto e la sua personalità in quel periodo: anche se Scaglione fa come sempre ricorso solo alle sue straordinarie prerogative e capacità visionarie, alcuni farfugliano di una marcata somiglianza tra la “Indra” e la “Corvette C3” che era nata circa quattro anni prima dalla matita di Zora Arkus-Duntov e Bill Mitchell; ad onor del vero è il caso di riportare le considerazioni del geniale Designer Pete Brock, che ha apertamente dichiarato che fu proprio Bill Mitchell, al ritorno dal Salone di Torino del 1955, ad essere talmente impressionato dall’opera di Scaglione da averlo assunto a vero e proprio riferimento di ispirazione, e per inciso anche Giovanna Scaglione in una intervista ricordò il filo ispiratore del Maestro nella XP87 Sting Ray del 1959.
Ed in verità a me la Indra sembra proseguire anche la ricerca formale della “Titania” con la struttura di base rappresentativa della innata eleganza di Scaglione, dove ogni linea più che raccordarsi sembra appoggiarsi sulle altre, generando un movimento ed un aristocrativo “nervosismo” dei passaruota, del cofano anteriore e della coda; forse c’è la rivendicazione di un percorso interrotto, quello con Bertone, nel taglio di impatto, quello che all’occhio dell’osservatore “forma” l’immagine del modello che stiamo ammirando.
Se, a mio avviso, un richiamo si vuole trovare, lo cerchereiaddirittura – e credo di essere l’unico a dirlo dopo mezzo secolo – verso le forme sofferte e controverse della “FitchPhoenix” di Coby Whitmore e di Bob Cumberford, evidentemente per ricreare coraggiosamente un certo “Family Feeling” che da inizio anni Settanta cominciava a diventare un elemento di Marketing importante, e dove però il concetto di “ispirazione” non implica per forza un “ricalco” di linee altrui, ma solo il rispetto e l’attenzione per dei concetti e canoni stilistici azzardati frutto di personalità creative non comuni.
Perchè di una cosa Scaglione non aveva bisogno, ed era di copiare. E’ stato – anzi – lui apripista di alcuni concetti formali ed aerodinamici seguiti da altri.
Ma io sono solo un ex ragazzo che sognava di fare il Designer, non uno storico di settore; e dunque non voglio imbattermi in analisi ed opinioni che potrebbero essere del tutto campate in aria.
Quello che non voglio accordare alla critica più generalista è che la “Indra” sia ricordata nella storia come la “Corvette italiana”, quasi a presupporre una affinità anche iconica tra l’americana di General Motors e l’ultima Dea di Intermeccanica. Ma, proprio a proposito di General Motorsecco che, improvvisamente, inizia una valanga.
Se le premesse per la nascita di Indra potevano rappresentare un poker d’assi vincente (la sinergia tra Scaglione, Reisner, Lutz; la distribuzione e l’assistenza europea di Opel; il motore Corvette 5,4 V8 e una gran parte della componentistica Opel, certamente un grande aiuto al conseguimento di una qualità costruttiva per la Indra; la linea sconvolgente; la estensione di gamma e motorizzazioni della Indra) la conseguenza ed il percorso evolutivo configurano un dramma vero e proprio, dalle conseguenze epocali.
Il dietro front americano, il dramma di Intermeccanica e il crepuscolo del Maestro
L’accordo incrociato Intermeccanica/Bitter/Opel-GM dura dal 1971 al 1973, ma poi accade qualcosa. Inizia a rompersi per primo il fronte Opel: la Casa di Russelheimimprovvisamente decide di cessare l’accordo di distribuzione, vendita ed assistenza delle Indra in Europa.
Formalmente il motivo è nella pioggia di interventi in garanzia e di lamentele dei Clienti che – a detta di Opel – avrebbero contestato vizi originari e malfunzionamenti a causa dei quali le prime Indra avrebbero fatto la spola nei centri Assistenza del marchio tedesco, e tutto a sue spese.
Riflessione: ma non c’era dentro le Indra materiale Opel di prima fornitura, i meccanici Intermeccanica non hanno seguito corsi certificandosi in forma idonea per le lavorazioni necessarie?
Questo caso, ad esempio, mi ricorda le esperienze quasi contemporanee di ASA 1000 / Ferrari (1965) e di Osi con Ford (1968): nel primo caso era stata direttamente la Casa del Cavallino a rilasciare alla famiglia De Nora le licenze costruttive per la “1000” che poi fu abbastanza tranquillamente venduta ed assistita dalla esigentissima Rete Ferrari, che tuttavia non rilevò alcun vizio in una origine costruttiva appena nata come quella appunto dei De Nora a Lambrate; allo stesso modo la convenzione tra Opel ed Intermeccanica replicava sostanzialmente quella tra Ford ed OSI nel 1967 , nella quale la farm torinese (ottima nella prototipazione ma sostanzialmente artigianale nella costruzione stradale, come la Intermeccanica) adottava la piattaforma motoristica della “ Ford 20 M TS” adattata su pianale OSI. Con 2.200 esemplari costruiti in un anno e mezzo (5 al giorno, in proporzione) non si ricordano casi di problematiche rilevanti riscontrate.
Certo, non ha senso fare comparazioni, eppure è curioso che un piccolo Costruttore (Intermeccanica) che partendo dalla “IMP” con la quale aveva sverniciato le Abarth al “Ring”, passando per “Apollo”, e proseguendo con tutte le altre supercar lungo un pedigree nel quale, semmai, non aveva mai fallito un colpo (sono stati casomai i diversi Partnerscommerciali e tecnici di Reisner ad aver fallito con Frank e non il contrario) improvvisamente sotto le lenti accorte ed esigenti di Opel si sia dimostrato un incapace……
Sarebbe anche il caso di ricordare che – a parte la subfornitura Opel e GM – le lavorazioni delle Indra si svolgevano tutte in Italia, a Torino, dove come tantissimi altri il geniale Reisner faceva la spola tra diversi ottimi contoterzisti del territorio piemontese più rinomato al mondo in tema di lavorazioni artigianali automobilistiche.
E nessuno si meravigli del fatto che piccoli Costruttori del Torinese si affidassero ad una catena abbastanza lunga di lavorazioni su commessa all’esterno delle proprie “Farm”: un gioiello della fantasia collezionistica come il Marchio Monteverdi ha vissuto per anni con la sua Sede ufficiale svizzera situata all’angolo di una media Carrozzeria, mentre le lavorazioni delle sue Supercar erano totalmente esternalizzate alla filiera di Rayton Fissore in Italia, e questo è un esempio tra tanti.
Oh, insomma: dopo tanti successi e tante prove di capacità fuori del normale, Reisner doveva però passare sotto l’occhio attento di Opel per capire che in fondo il suo lavoro non sapeva farlo…..Pazienza, ma si fa per dire.
La doccia fredda del passo indietro del marchio tedesco è una tragedia per un artigiano che oltre la forza della sua officina non ha le possibilità – per l’epoca – di svolgere una corretta azione commerciale sul territorio senza il supporto promesso, se non investendo un fiume di denaro che ovviamente Frank Reisner non ha.
Ovviamente, ma questo è palese, anche Erich Bitter si defila, avendo un mandato Opel da rispettare che, oggettivamente, ha un peso ben maggiore rispetto all’accordo di importazione di un piccolo Costruttore come il Marchio del toro rampante.
Insomma, come altre volte, Reisner e Scaglione sono soli in mezzo alla tempesta….Eppure….Ecco, un particolare: come detto, possiamo credere che Intermeccanica si rincoglionisca di colpo e non sappia fare quel che e’ riuscito nello stesso periodo alla OSI, alla ASA, alla LMX (se vi fosse riuscita); tuttavia rimane un piccolo particolare, cioè che Erich Bitter è contemporaneamente, nel progetto “Indra”, sia il Deus ex machina dei contatti tra Reisner e Lutz, sia l’importatore di Intermeccanica, ma incidentalmente del Toro rampante è anche un concorrente improvviso: Bitter ha deciso il salto nella produzione stradale e l’unica potenziale candidata è proprio quella “CD Corvette” rimasta ancora allo stadio di prototipo, della quale Bob Lutz cede a Bitter prototipo e progetto, licenze e tutto quel che serve per consentire ad Erich di organizzare, insieme al carrozziere Bauer, la “Bitter CD” presentata nel 1973, superando in questo anche il “povero” Pietro Frua con la sua concept tematica apparsa in ritardo.
Questo ha o può avere un rilievo, secondo Voi, nella brutta vicenda della Indra?
A questo punto Intermeccanica tenta il tutto per tutto: completa la serie di modelli e versioni previste della Indracon la “Fastback 2+2”, modello perfetto anche per azzardare il passo folle, quello di sbarcare in America: siamo arrivati al 1972, ma un nuovo colpo attende Frank, con Bob Lutz(promotore dentro GM del rapporto con Intermeccanica) che lascia il Gruppo americano per passare in BMW; a questo punto le nuove cariche gestionali a Detroit si trovarono di fronte ad una considerazione molto semplice: con una crisi energetica in procinto di dilagare facendo franare le vendite di auto di grande cilindrata e prestazioni, la Chevrolet aveva investito nella Corvette C3 un vero patrimonio, mentre i numeri commerciali cominciavano ad entrare in zona rossa. In questo contesto avere nel mercato americano una potenziale nuova avversaria italiana, bellissima, più performante della Corvette e per giunta dotata del suo stesso motore era una vera fesseria.
Sic et simpliciter, come per le Iso Grifo e per le Bizzarrini5300 Gt Strada, tanto per fare un esempio.
Ed ecco, casualità, che tra il 1972 ed il 1973 dai fax di General Motors a Detroit partono delle richieste draconiane fatte solo per suscitare una risposta: “Addio”.
Ed infatti Renzo Rivolta, Giotto Bizzarrini (che in verità era già fallito ma aveva testato un Ford Cleveland nella 5300 GtStrada nel 1970) e dunque Frank Reisner devono dire addio al 327 Chevy con possibilità nulle di rimpiazzo: non soltanto perché gli unici Marchi – Buick e Chrysler – disponibili all’epoca a fornire motori a prezzo da Black Friday sono visti dai puristi sportivi – disposti a spendere – come delle scelte di ripiego rispetto allo Chevy (mentre l’alternativa onorevole è appunto il Cleveland Ford dal costo tuttavia solo un poco più favorevole dello Chevrolet); ma soprattutto perché adottare un nuovo blocco motore significa in fondo ridisegnare il 70% di un’auto cambiando processi di lavoro, accessori e materiali, ricominciando i test necessari.
Un bagno di sangue in un mercato in caduta libera? Assurdo, ed infatti quasi nessuno dei piccoli Costruttori messo alle strette da General Motors riesce a proseguire in quel momento con un rimpiazzo. Tuttavia, vista l’importanza ed i numeri possibili nel mercato americano, anche Reisner(come appunto Renzo Rivolta e sporadicamente Giotto Bizzarrini) adotta sulla Indra il “428” da quasi sette litri della Ford.
Siamo nel 1973, ed i circa 350 Cv a 5.600 giri/min. e i circa 603 Nm a 3.400 giri/min. del roccioso V8 entrano a forza nel cofano della Dea di Scaglione, per un numero non superiore a circa dieci pezzi (in verità le cifre sono davvero aleatorie al riguardo, e alcuni parlano di non più di 2/3 pezzi…) prima che la General Motors, presa conoscenza del nuovo motore al posto dello Chevy, si decida ad adottare le maniere dure: con motori della concorrenza sulla vettura, viene revocata alla Intermeccanica persino la fornitura di componentistica accessoria e vitale, chiedendo indietro addirittura le poche giacenze di magazzino presenti a Torino.
In pratica General Motors “spoglia” di fatto la originaria Indra, ed è superfluo dire che con questa ultima tagliola il programma “Indra” si chiude, mentre – guarda caso – la stessa General Motors consolida il rapporto con Erich Bitter per il progetto di costruzione della “sua” versione sportiva di Opel su commissione: la “Bitter CD” presentata nel 1973 e realizzata con Bauer Karrosserie di Stoccarda.
Nonostante la Intermeccanica, pur attrezzata all’osso, risulti al confronto di Bitter più Bauer (per l’epoca) quasi una Azienda superorganizzata, guarda caso nei confronti di Bitter nessun uomo Opel solleverà mai obiezioni e lamentele su eventuali guasti e malfunzionamenti. E non è ironia, è un dato di fatto. Forse quella episodica e minimalista “Bitter CD” non dava fastidio a nessuno. Direi che chiosa più laconica ed allo stesso tempo tristemente sarcastica non potrei immaginarla, per dire – sulla storia della Dea eretica che terrorizzò Detroit – la parola “fine”.
Sapete come si chiude la storia? Con chi, innamorato della Dea “Indra” e della storia della Intermeccanica, pensa che per una volta il gigante Golia dell’Industria automobilistica abbia avuto paura di un piccolo Davide della meccanica.
E che, prima di ricevere una sassata in fronte, abbia strappato via a Davide la sua borsa con i sassi. La Dea Indra, appunto.Che rimane tale, nonostante le sue vicissitudini.
Riccardo Bellumori.