Ancora prima di nascere, l’ambiente intorno a noi – insieme alla contemporaneità ed agli effetti del passato – imprime dentro ogni persona una serie di sfumature, di accordi, ma anche di impercettibile prigionia in grado di condizionare e mutare l’orientamento del nostro vivere, e della nostra crescita.
Questo concetto, seppure ovvio, implica un grado di “rischio” inversamente proporzionale alla consapevolezza personale che se ne può avere: pensiamo a quanti input ci attraversano ogni minuto della giornata, come li assimiliamo più o meno consapevolmente, e quali contromisure o processi deduttivi dovrebbe stimolarci – spesso a salvaguardia personale – ciascun input. Il che non esclude l’esistenza di input in grado di rendere la nostra essenza individuale migliore e più completa.
Anch’io, figlio della mia epoca e circondato dai suoi protagonisti, sono anche il prodotto di influenze specifiche: arrivato come sono, in un modo o in un altro, al mezzo secolo della mia vita lungo epoche e momenti storici e dentro ambienti e contesti che hanno fatto di me qualcosa che altri contesti e momenti avrebbero reso diverso.
Sono nato, ad esempio, quando l’impronta del primo uomo sulla Luna fu accompagnata da quello del Lunar RovingVehicle (Rover) che con le sue quattro ruote tassellate sembrava sublimare la vittoria dell’auto nell’iperspazio.
E sono cresciuto, anche, camminando nell’Urbe che è culla mondiale di arte, cultura e tradizioni, respirando il senso del bello, delle proporzioni, dello stile, dell’armonia e della ricchezza trasmessa dal patrimonio architettonico, scultoreo e grafico che compone l’Italia: di questo senso del bello il mondo dell’Auto avrebbe avuto esempi didascalici per lungo tempo.
E mentre crescevo in questo contesto, gli anni Settanta della crisi energetica, del Kippur, di Kissinger e dell’America con la “Kappa”, ma anche gli anni della contestazione giovanile ed operaia, quelli di Giorgiana Masi e degli anni di piombo colpivano anche l’auto: le Diesel, le sassate proletarie ed operaie alle auto dei ricchi; eventi coperti piano piano da quello che i cronisti chiamarono anni dopo “l’Edonismo Reaganiano” con il progresso tecnologico dell’elettronica e del Computer, con le galoppate ed i crolli dei Titoli azionari in Borsa, con la finanza internazionale rampante dell’Occidente che veleggiava trionfante verso gli Imperi del Male e verso un continente asiatico di nuovo in cerca del suo prossimo Marco Polo.
Ed anche l’auto diventò l’emblema dell’elettronica, della tecnologia miniaturizzata, dei cristalli liquidi e dei led, da quella fantomatica “Aston Martin Lagonda” la cui elettronica digitale fu una vera iattura alla piccola Renault “11” con la vocina assistente nell’abitacolo…
L’auto anche come laboratorio di tecnologia: Turbo, 4×4, i cristalli multistrato, le lamiere zincate, i metalli nobili; e poi i polimeri, i compositi, le fibre, l’iniziale boom della ceramica.
La frontiera ad Est – anche nel confronto automobilistico, era sempre più scricchiolante ed incapace di contenere il cosidetto decadente mondo capitalista; mentre tuttavia ad Oriente si imponeva un popolo giapponese che vendicavacon la guerra commerciale al mondo intero quella insanabile ferita della sconfitta bellica.
Il Pop-Rock inglese rimpiazzava con Duran Duran e Genesis le precedenti rivoluzioni dei Beatles, degli Stones, dei Led Zeppelin e dei Pink Floyd, i giovani non erano già più quella massa unita di Woodstock ma una galassia di diverse socialità messe insieme, anche perché il rampantismo galoppante dalla fine degli anni Ottanta – in risposta alle lotte operaie e studentesche – aveva insinuato in tanti l’imbarazzo per quei contestatori e “figli dei fiori” che stavano per essere seppelliti dalla new generation degli Yuppies.
E così anche “Kar-a-sutra” di Mario Bellini veniva messa in soffitta dal primo monovolume Renault, l’Espace.
Su tutto questo, l’ombrello onnivoro della Televisione e del satellite, che permetteva ad una parte del mondo di credere di poter capire e controllare tutto quel che accadeva dall’altra parte, esaltando da un lato la magnificenza del progresso democratico occidentale contro il medioevo socialista. Il decennio 1979/1989 si era aperto con la rivoluzione komeinista in Iran e si era chiuso con il ragazzino cinese davanti al carro armato di Piazza Tien an men.
In questo panorama le “strade” del mondo erano rappresentate e percorse anche e soprattutto da una protagonista indiscussa: l’automobile, che noi occidentali volevamo sempre più bella, diversa, estesa, tecnologica, comoda, opulenta, spaziosa, disponibile ed utilizzabile. Anche e soprattutto per distinguerci dal resto del mondo. E di quel mondo dell’auto, io come tanti, mi sono cibato per decenni lasciando che le sue vicende producessero in me effetti e cambiamenti.
L’automobile era diventata, nel ponte tra gli anni Settanta ed Ottanta, un complesso di simboli e significati in grado di rappresentare e surrogare contesti socio-economici, culturali e geo-territoriali tra loro diversissimi.
In America era lo specchio di un sogno al tramonto, in Giappone il grilletto di una pacifica pistola industriale puntata contro l’Occidente; in Europa l’automobile era invece, in quell’intervallo temporale, il teatro di battaglie industriali e di scontri dimensionali dove le bocche di fuoco provenivano dai consulenti di Marketing e di immagine e dove la posta in gioco era la conquista dei mercati nazionali e dei target di vendita.
Benchè, nell’arco del ventennio tra inizio anni Settanta e fine anni Novanta, l’Europa fu capace di offrire una produzione ed un assortimento automobilistico capace di far impallidire il mondo: non vi era architettura motoristica, forma volumetrica, dotazione tecnologica ed informatica che il Vecchio Continente non riuscì a rendere possibile per gli automobilisti di tutti i giorni. Mancava solo un travaso, dal continente a Stelle e Strisce: la bulimia finanziaria, dalla quale è derivato il terremoto di cui ancora adesso paghiamo le conseguenze. Ma questa è un’altra storia.
L’auto, dagli anni Settanta, era così diventata per una fetta importante della Società – sia automobilistica che non – un simbolo di sviluppo e di simbiosi culturale tra le persone ed il loro ambiente.
L’auto cominciava ad essere portatrice di significati e di input, dunque, che finivano per superare il suo stesso mercato per contaminare abbigliamento, cultura, industria e consumo nel suo complesso.
Partiamo da questo, preliminarmente, per ragionare su quel che l’auto rappresentava nel mondo occidentale dagli anni Settanta in poi, proprio quel periodo nel quale la mia esistenza ha incrociato quella di nomi tra i più prestigiosi della storia.
L’auto era rimasta un simbolo di potenza industriale nazionale come lo era stata prima della Guerra, ma dagli anni Sessanta la crescita del mercato di massa aveva generato sentimenti di appartenenza crescenti dentro i quali si era radicato il vero e proprio tifo sportivo.
Le Gare erano diventate per i Costruttori il fronte di guerra estremo e più ambito: vincere significava avere un battàgepubblicitario e mediatico sui concorrenti spendibile sulla produzione stradale, dove infatti le auto sportive erano diventate il fiore all’occhiello dei Marchi.
Se gli anni Settanta dell’Auto europea erano stati per il “primo terzo” il teatro di crescita delle utilitarie, per il secondo il palcoscenico dell’avvento del motore a Gasolio, l’ultima parte degli anni Settanta recuperava un poco dell’Austherity energetica sviluppando le piccole serie sportive di cilindrata ridotta per le quali, da là a poco, l’avvento del turbocompressore avrebbe aperto confini di mercato inaspettato.
Lo stile delle auto, in questo, cominciava a dover rappresentare non solo le qualità e le aspettative che l’automobilista cercava di soddisfare con l’acquisto; ma anche quella “Corporate Image” che ogni Costruttore o Gruppo cercava in un mercato sempre più globale dove l’impatto della forza industriale e commerciale dei protagonisti diventava un elemento determinante di successo.
Quindi a partire da un certo momento degli anni Settanta le auto cominciavano a diventare testimoni di messaggi e di valori in grado di superare il loro contesto utilitaristico o territoriale di riferimento.
Su questo ci basta ricordare le Supercar in grado di simboleggiare la potenza e la sportività della pista sulle strade di ogni giorno, ma anche la nascente moda anni Ottanta delle fuoristrada capaci di evocare la magia dei paesaggi africani tra le vie cittadine.
Ma su tutto il contesto dello stile automobilistico e delle due ruote, a dominare la scena si era posto al vertice di tutto lui, l’Industrial Designer ovvero “la firma di stile”, chiamato ad integrare tra loro e sublimare linea, volumetria, ingombri, doti dinamiche, carattere e simbologia evocativa.
Il tutto all’ombra di un contesto industriale e tecnologico nel quale CAD/CAE/CAM erano per la gran parte sinonimo di ambienti di sviluppo tutti ancora da costruire; dove la realizzazione dei bozzetti grafici era 100% manualità e matite su carta; dove le “maquette” in 3D erano ancora in clay o terracotta e dove i vari passaggi di rifinitura per arrivare al modello finale erano corredati di biblica pazienza e di infiniti tocchi di spatole.
In questa cornice, pazientemente e con grande impegno, le menti e le mani dei Designer esercitavano quella prerogativa unica che li differenziava dalla gente comune: la capacità di costruire un futuro esistente solo nel loro pensiero, riuscendo a scomporre, articolare e scansionare ogni linea e componente dell’auto nata dentro la loro dimensione immaginaria.
ITALIA CULLA DELL’AUTO
Il “Made in Italy” era tale davvero: la presenza di Centri Stile interni alle Case Auto si sommava all’azione di firme capaci di sconvolgere i sensi collettivi con le proprie creazioni. Pensando a questo, sembra incredibile che quella sovrabbondanza di protagonisti nazionali all’alba degli anni Settanta fosse semplicemente una porzione di quelli che anni prima avevano in qualche modo chiuso la propria parabola (fallimenti, cessazione attività, confluenza in altre realtà, trasformazioni aziendali) scomparendo dagli annali ma non certo da quel brodo di coltura che avrebbe dominato prime pagine e media TV dagli anni Ottanta.
E così, il sottoscritto fin dall’età della scuola media si trovò a riempire le pagine dei quaderni di bozzetti, piccoli particolari, tratti e scarabocchi che volevano emulare quei sogni a due e quattro ruote che popolavano i miei sogni di ragazzino.
Ma il mio battesimo con le auto da sogno era avvenuto alcuni anni prima con due protagoniste ben precise, una sorta di imprinting con le quattro ruote: due auto, primogenite del sogno, che avevano fatto da apripista alla mia passione ed alla mia ammirazione; a quattro/cinque anni fu come un’onda in pieno viso, come colpi di vento, come bagliori di luce.
Vidi su una vecchia copia di Quattroruote la “IntermeccanicaIndra” e poi la concept “Lancia Stratos Zero” viste entrambe all’interno di una vecchia copia di “Quattroruote” che ho letteralmente consumato con gli occhi e che erano l’oggetto del desiderio dal momento in cui avendo raggiunto la prima età di una basica ragione (cinque anni) e di una capacità selettiva di preferenza. Ma più vedevo quelle due immagini e più sentivo il suono dei segni di matita nel vento, quei segni che avevano creato quelle bellezze straordinarie.
Lascio aperta la parentesi sulla Intermeccanica “Indra” di Franco Scaglione, una dea a quattro ruote da richiamare in uno spazio dedicato appositamente; ma l’altra, che da Concept “Zero” era diventata l’auto per la strada ed i Rallyes, per gli anni a venire per me diventerà solo e sempre la “Stratos”. Lei era allo stesso tempo Goldrake, era Moonraker di 007, era il pianeta sconosciuto ed il fondale marino inesplorato con tutti i suoi mostri nascosti.
Era la distinzione e l’eleganza assoluta di una ragazzina vestita della ferocia di una mangiatrice di uomini e dello sbarazzino anticonformismo di una artista un poco naif. Era il diavolo e l’acquasanta, una violenza estatica alla quale era impossibile non assoggettarsi, una frustata alla immaginazione comune spinta da quella Lancia a correre più veloce per cercare di abbracciare tutto il senso di quella divina tempesta di simboli e sensazioni.
Ma soprattutto per me era una entità che non credevo potesse essere uscita dalla mente umana: infatti solo da un momento successivo risaltò alla mia attenzione ed alla mia memoria il nome del suo solenne creatore, Marcello Gandini, senza che di lui conoscessi neppure il volto.
Per anni sarà così: Gandini era il mio riferimento ed il mio mistero misterioso: senza Internet e Social, apparirà davanti a me solo con le sue creature fino – pensate – alla fine degli anni Novanta. Nulla a che vedere con alcuni colleghi Stilisti e Designer di auto che avevano il beneficio dei riflettori mediatici da tanti anni prima.
Da quella Stratos è passata sotto i ponti una infinità di acqua, di vita e di eventi diversi che hanno indirizzato e influenzato il sottoscritto spettatore di un arco temporale (tra metà anni Settanta e metà anni Novanta) in cui la fantasia dei Designer ha gratificato l’immaginazione e la passione di automobilisti e di appassionati. Anche per questo il profilo e la personalità dei disegnatori di auto era diventato di interesse mediatico. Eppure Gandini risultava, alla pari di colleghi connazionali (Fioravanti, Martin, Cressoni, Bruno Sacco) o stranieri (Opron, Deschamps, Tijarda) decisamente distante dal jet set mediatico oggettivamente inaugurato da Giorgetto Giugiaro e proseguito negli anni Novanta, ad esempio, da De Silva e Chris Bangle.
Nulla che, in questo mio descrivere, possa o debba essere percepito come critico o diminutivo di alcuni nomi rispetto agli altri in elenco; ma è evidente che la parsimonia comunicativa su Gandini, al di fuori dell’informazione specialistica e di dettaglio sulle sue creazioni, ha allo stesso tempo aumentato la mia naturale curiosità di bambino/adolescente/ragazzo su di lui mentre allo stesso tempo rendeva inesorabilmente Giorgetto Giugiaro una presenza sempre più radicata nella mia immaginazione unitamente al fatto, senza dubbio, che entrambi (Giugiaro e Gandini) rappresentavano forse i più efficaci e calzanti traduttori di trends, simboli e concetti vincenti in tema di Design auto.
E così, nel dualismo di cui sopra, dagli anni Settanta si succedevano nella mia coscienza automobilistica le emozioni sensitive e percettive a confronto di 308 GT4 contro Maserati Merak, di Mini 90 contro Fiat Panda, di Uno contro Supercinque, e così via.
Un universo, una parure solo esemplificativa dei gioielli che entrambi i nostri due geni dello stile riuscivano ad inanellare.
Perché astraendo dai frontismi che solo una propaganda in malafede poteva alimentare il mio parere è che entrambi siano geni del mondo dell’Auto.
Un vacillare continuo del sottoscritto tra – ad esempio – le forme arrembanti della “Isuzu Piazza” di Giugiaro contro la rivoluzione discreta e provocatoria di Citroen BX di Gandini, una delle sole quattro Citroen che adoro nella mia vita; e quel confronto biblico dentro me si è alternato fino ad un momento discriminante: quando ho visto per la prima volta – nell’evento del 12 Giugno 1991 – il punto di arrivo irreversibile e di non ritorno in quello che costituiva la “summa” del mio gradimento e delle mie aspirazioni in tema di automobili.
Era scesa sulla terra la “Iso Grifo 90” di Gandini.
A quel punto non c’era e non ci sarebbe stato nulla, in seguito, di più coinvolgente di Lei, nella mia fantasia: Grifoper me ha rappresentato un capitolato di leggi ideali, un disciplinare incardinato sulla modalità canonica di riportare sugli scudi non tanto un’auto del passato quanto una identità automobilistica il cui passato viene proiettato e riconfigurato in linea con un nuovo futuro.
Marcello Gandini, poeta di un mondo in continuo cambiamento
Un Designer fa politica? Bella domanda. Di certo fa cultura, e nel caso Marcello Gandini ha creato e trasmesso davvero una traccia indelebile anche di cultura della bellezza.
Cosa significa “politica”? Mentre dico questa parola il ricordo va alla cronologia fotografica del nostro tempo recente dagli anni Settanta ad oggi: le istantanee delle Domeniche a piedi per la crisi energetica, i contorni di foto gravide di fumo dei lacrimogeni e degli attentati negli anni di Piombo, i colori vivi e sgranati delle foto anni ’80 con le immagini di una Società in corsa verso il benessere: un Designer come Gandini non poteva essere distante o peggio incurante di tutto questo, ma doveva tradurre in linee e simboli effetti e vincoli di quelle trasformazioni sociali, e dunque a sua volta Marcello Gandini, in questo senso, è stato capace di tradurre nelle sue creazioni anche influssi culturali e politici.
Mi ricordo benissimo il 7 Gennaio sera di quel 1978: era un Sabato, ed a otto anni fui praticamente sollevato e strattonato da mia madre davanti all’ingresso dell’oratorio; erano le 19,00 e due ragazzi erano da poco stati centrati da pallottole sparate davanti Via Acca Larenzia, nelle cui vicinanze abitavamo all’epoca.
Ricordo l’aria illuminata dalle luci stradali che immortalava la polvere alzata da lacrimogeni e molotov in risposta al tumulto giovanile, i rumori degli spari e le sgommate delle pantere della Polizia che segnarono per sempre la memoria di un bambino.
Ho pensato a lungo quanto potesse, quel clima, pesare sul sentimento di Marcello Gandini mentre pensava a studenti e contestatori che spaccavano i vetri delle “sue” Maserati come di altre auto di prestigio perché considerate roba da “capitalisti”; penso ancora a Marcello che immette quasi come atto di forza, nelle Domeniche a piedi della crisi energetica, una belva onnivora come la “Countach” in grado tuttavia di restituire sogno ed emozione ad un pubblico automobilistico in depressione; anche se, per personalissimo contrappasso, Marcello ideò ai tempi della Countach anche quella che sino ai giorni nostri rimane una delle “pure sport” popolari più easy ed accessibili di sempre: la piccola e terribile Fiat “X1/9” 1300.
Penso anche alla “Garmisch” che ad inizio Settanta apriva alla BMW le porte per concepire la berlina media del suodestino e che avrebbe in parte cambiato la visione generale di quel Marchio, perchè dentro una linea dinamica e discreta celava l’indole di una ammiraglia sportiva; senza dimenticare quel “ponte tibetano” che fu la Maserati “Quattroporte II” che solo la endemica nevrosi e paranoia transalpina poteva cassare senza l’onere della prova.
Peugeot, ormai proprietaria di un Tridente che i francesi avevano portato sull’orlo del baratro, negò alla Maserati il diritto di una sua Ammiraglia, e la piattaforma tecnica decisa a Parigi fu più un esercizio di autolesionismo che non una visione strategica alternativa alla classica ricchezza di quel segmento di mercato, in risposta alla crisi energetica del periodo.
Nonostante questo Marcello Gandini decise di rendere quella “Quattroporte II” un’auto in grado di parlare e di raccontare sé stessa: se fosse stata messa in commercio avrebbe comunque spiegato ai suoi clienti tutto quello che Gandini gli aveva trasmesso: distinzione, classe, e rassicurante dinamismo.
Penso al Marcello Gandini, poi, del 1994: che quasi epico prende la materia di quella sua vecchia “Quattroporte II” e sempre con l’indole di voler salvare il Marchio riesce a rivoluzionare non solo la sua originaria creatura ma anche la successiva “III” del 1979; offrendo una ammiraglia snella, agile ma allo stesso tempo comunque regale sul “vecchio” telaio – obbligato dalle politiche dell’austerità inevitabili per De Tomaso – della famiglia “Biturbo”.
Penso soprattutto all’indole di Gandini più vicina ed empatica con le masse e soprattutto con le esigenze di tutti i giorni, e mi viene in mente l’artista che sfida il pauperismo borghese tipico delle utilitarie di Corso Marconi di quel tempo e regala al ceto medio una piccola signora, la Innocenti Mini 90, pratica ed allo stesso tempo aristocratica, capace di regalare alla massaia il vezzo tipico di chi guidava auto di cosiddetta classe superiore: un miracolo del Designer alle prese con budget omeopatici di Leyland – Innocenti e con il vecchio Chassis inglese; ciononostante le agitazioni operaie alla Innocenti nel periodo buio renderanno difficili le consegne di una piccola subito richiestissima.
Senza la Mini 90 non sarebbero nate nel tempo City car come Rover Metro, Fiat Uno e Peugeot 205; e senza la Supercinque di Gandini forse non sarebbe cresciuto come è cresciuto il Segmento “B” da metà anni Ottanta sino a diventare il mercato europeo leader in Europa per volumi e presenza di modelli fino al 2010, per poi lasciare gradualmente spazio al Segmento “C” e crossover B/C.
E forse senza la Renault “5 Turbo” del 1979 non avremmo visto la serie di piccole supersportive salite alla ribalta dagli anni Ottanta ed offerte da quasi tutti i Marchi.
Sarebbe il caso di onorare il ricordo dei Designer e delle automobili anche per questo: perché ogni loro opera ha seguito, immortalato, onorato e trasformato l’epoca e la Società che ha avuto davanti. I Designer Auto hanno regalato cultura, senso, eleganza. E crescita.
La “Lectio Magistralis” di Marcello Gandini, manifesto per le generazioni future
“La funzione più importante del designer: provocare un sentimento, una seduzione, una reazione emotiva”.
Per decenni i tomi di Marketing, di Organizzazione Aziendale e di Advertising hanno provato a rendere un concetto didascalico del Design Industriale. Una definizione valida per tutto e per tutti. Senza tuttavia riuscirvi.
Mai nessuno, a mia memoria, è stato in grado come Marcello Gandini di racchiudere in queste poche parole appena descritte la vera essenza del protagonista ed interprete del Design, cioè il Designer.
Quello raffigurato dal Maestro tuttavia non contempla un profilo generico di Designer ma sembra quasi il suo Biglietto da visita, rappresentato durante il discorso per la Cerimonia di conferimento della Laurea Honoris Causa in Ingegneria meccanica al Politecnico di Torino il 12 Gennaio scorso.
La “Lectio Magistralis” che Marcello Gandini ha esposto al mondo, quell’intero mondo con il quale ha comunicato per oltre sessanta anni di opere universali ed immortali di bellezza automobilistica ed industriale, rivelando quel suo profilo vitale di ragazzo ribelle, di genio capace di ribaltare canoni così come fece a quel suo primo incontro con un modellista tanti anni fa, quando gli aveva presentato un suo disegno “rivoltando” l’orientamento canonico del muso dell’auto, che usualmente era rivolto alla sinistra di chi guardava.
In quella sua testimonianza di accompagnamento alla cerimonia della Laurea Marcello Gandini ha espresso il suo messaggio fondamentale per le generazioni future:
Il coraggio di cambiare
Il mondo del Design è segnato più da tendenze che da idee, ecco un altro pensiero che Gandini ha trasmesso nella sua “Lectio Magistralis” insieme al monito di conoscere bene la storia e l’evoluzione di uno specifico settore di interesse, se si vuole davvero progettare qualcosa di nuovo:
“Lo stile insegue sé stesso cercando di ripetere all’infinito le auto che hanno avuto successo. Bisogna trovare il coraggio di cambiare”: la frase testuale che spero impegnerà i Designer di oggi e di domani ad onorare il ricordo del Maestro, che nel tempo recente aveva seguito un filone di ricerca e sperimentazione basato sulla semplificazione di processo e delle strutture dell’auto. Una ricerca che lui stesso ha esemplificato in modo azzeccato così: “Un metodo di progettazione e costruzione che consente una riduzione drastica delle otto operazioni industriali necessarie, e quindi degli spazi, della manodopera, dei robot, dei costi complessivi. sono riuscito a creare non più una nave costruita nella bottiglia, ma un tipo di bottiglia a cui la nave potesse unirsi già completa e pronta”. E quella nave, quella bottiglia, parte dalla Carrozzeria Marazzi a Milano, per meglio dire tra Saronno ed Arese.
Era il 1963. Nel 1965, sessanta anni fa esatti il prossimo anno, Gandini era nominato Responsabile del Centro Stile della Bertone a Grugliasco. Neppure immaginate il paradiso amanuense ed artigianale di Carrozzerie, battilastra, modellisti ed esperti in grado, nel perimetro torinese, di dare vita ai sogni a quei tempi. Fa effetto pensare che è tutto scomparso da allora.
Fa effetto anche, Vi confesso, pensare che l’uomo che ben oltre mezzo secolo fa ci ha regalato Countach, Stratos, Espada, Mini 90, decine di concept da sogno; l’uomo che ha sfidato il crepuscolo degli anni Novanta con una pioggia di supercar a sua firma; l’uomo che è stato in grado di vestire l’unica sedici cilindri di quaranta anni fa senza farla apparire un carro armato (la Cizeta); l’uomo che ha regalato alla Renault una “dinastia” (la Supercinque) ed alla Citroen la continuità vitale dopo Robert Opron e mille altri colpi di genio, abbia avuto curiosità ed umiltà per continuare a sperimentare fino all’ultimo e senza sedersi sugli allori, e di farlo nella discrezione e lontano dai riflettori.
Chi è capace di amare fa così, ed il senso di amore di Gandini per le auto doveva per forza accompagnarsi ad atti di forza e persino di ribellione: ai dogmi familiari di una carriera prefigurata ed obbligata cui Marcello sfuggi’dovendone pagare le conseguenze trovandosi per diversi anni giovanili a vivere fuori dalla sua casa con grandi sacrifici, ma anche verso i committenti ai quali Gandini offriva la sua concezione e la sua prospettiva rivoluzionaria.
“Alla fine del Liceo Classico divenni definitivamente un ragazzo ribelle” – ha scritto il Maestro, rifiutando di iscriversi all’Università e rinunciando alla carriera prefigurata dalla famiglia.
Il messaggio ai giovani: Osate !
“Battetevi per non fare mai ciò che qualcuno ha già fatto, non ripetete nemmeno Voi stessi, trovate soluzioni difficili ma nuove”; ed anche: “Ricavate dalle limitazioni e dalle imposizioni un forte, caparbio e costruttivo senso di ribellione”.
Le raccomandazioni di Marcello Gandini ai giovani, nella sua “Lectio Magistralis”, sono forti come le sferzate verso il mondo dei Costruttori, piegati verso la ripetizione di prodotti sempre più uguali e meno emozionali. “Repliche infinite del proprio passato”, definisce l’opera odierna dei Marchi auto.
“Rispettare il proprio passato significa non copiarlo mai, per non rovinarlo e per guardare avanti sostenendo il vero ingegno, l’innovazione, l’avanguardia. Vi auguro un’epoca dove cambiamento e coraggio siano una voce di Business obbligatoria. Io sono dalla vostra parte”.
Suggestivo, per un uomo che ha sempre avuto nella mano magica una matita sopra ad un foglio bianco, il passaggio della Lectio: “Usate la tecnologia come mezzo per mettere in pratica le idee, ma non smettete mai di scrivere, disegnare, tracciare con la matita sulla carta. Senza idee, nessuna innovazione tecnologica può essere utile”.
Marcello, il suo tappeto volante, la sua favola bella
“Non smettete mai di cercare l’ambiente adatto a Voi; le persone che vi valorizzano e vi mettono in condizione di esprimere il vostro talento e le vostre capacità”. La favola bella di Marcello Gandini, che è esortazione a tutti i ragazzi di domani a non rassegnarsi, è anche tributo e riconoscimento alla persone che forse più a lungo, più di tutti e con più amore ha creduto nel Maestro. La Signora Claudia.
“Ha iniziato allora e continua ad essere la chiave del successo e dei grandi risultati che abbiamo raggiunto insieme. Io la mente creativa, lei la capacità di creare stabilità, solidità. Di sostenermi, organizzare, mantenere relazioni”
La prima persona a cui Gandini dedica il pensiero è proprio lei. Ed insieme, senza dubbio, hanno il merito di aver lasciato un segno indelebile nella storia di quella che Gandini ha figurato con talento unico una dimensione “per metà tappeto volante, per metà casa”.
L’Auto con la “A” maiuscola, alla quale Marcello Gandini – il Maestro – ha dato una bellissima voce.
Gandini, nelle pagine dei miei quaderni e nelle pieghe dell’anima
Scuola Media “T. Mommsen”, Roma. 1981, 1983. I famosi “Quadernoni” che si usavano per le Ricerche didattiche. Acquistati nuovi, di solito fin dai primi minuti nelle mie mani vedevano le due pagine di copertina bianche (la seconda e la penultima) scarabocchiati rigorosamente a penna “Bic”. Si trattava di musi, profili, ruote, fanali. Centinaia di “flash” del ricordo di auto viste e desiderate su strada, tra le pagine delle riviste. Pian piano quei quadernoni finivano per avere le prime e le ultime sei o sette pagine piene di segni, schizzi, figurini di auto e moto. Con buona pace dei Professori che se ne dovettero fare una ragione…….
All’epoca ero un buon disegnatore, i concorsi locali, scolastici e regionali di disegno erano vinti a ripetizione quasi con noia.
Mi piaceva anche modellare, e con il Pongo – non chiedetemi perché e come – coinvolsi una intera classe di Scuola elementare nella realizzazione di un mini presepe che fece bella mostra di sé nell’atrio di ingresso. Inutile dire che sui fogli di carta e con le mani su quella pasta colorata cercavo istintivamente di replicare le linee e le sagome delle creature di Gandini.
Da allora, le vicende familiari e la ovvia (e del tutto giustificabile) limitazione economica mi portarono a seguire il filone familiare degli Studi classici.
Non fu facile condurre cinque anni di Liceo con diversi libri vecchi di venti o trent’anni – persino – tra le mani, ma tra ricopiature e supercazzole sciorinate ai professori riuscivo acavare il minimo sindacale di votazioni e giudizi, per poiridurre all’osso i tempi di studio lasciando spazio a tre passioni cresciute individualmente: Batteria e percussioni musicali, le improvvisate presso i pazienti e premurosi venditori della “Cappelletti Roma “ (concessionaria Suzuki-Cagiva-Ducati dell’epoca) ed ovviamente il disegno di auto e moto:
passavo le sere a disegnare con matite e pastelli su fogli “A2”, un poco più impegnativi dei quadernoni.
Diventarono una serie, ed all’età di sedici anni ne avevo composto tre pacchi rigidi: uno la inviai a “Quattroruote” per segnalarmi come collaboratore anche estemporaneo nella realizzazione di disegni ed esplosi, ed uno alla “Bertone” di Grugliasco. Incrociai le dita.
Mesi dopo, a mezzo lettera su carta intestata entrambi mi indicarono una ipotesi: andare all’I.S.S.A.M. di Modena, all’epoca uno dei Templi europei della didattica Automotive.
Mi colpì soprattutto la risposta della Bertone, dispiaciuta di non avere più possibilità e risorse per l’apprendistato di giovani disegnatori a Grugliasco, ma pronta a “raccomandare” la mia iscrizione in una Scuola che riceveva prenotazioni ogni anno da tutto il mondo.
Ancora oggi ricordo l’emozione di aprire quelle buste, spiegare quella carta, leggere quell’iniziale e di prammatica “Egr. Riccardo”…….Davvero altri tempi.
La terza busta di disegni, con tanto di fotocopia delle due lettere, fini’ appunto all’Istituto di Modena. Una paterna e simpatica “tirata di orecchie” del Magnifico Rettore (e leggendario, all’epoca) Doro Marotta in risposta: avevo osato definire l’I.S.S.A.M., nella mia presentazione, “uno dei più prestigiosi Centri di Formazione sull’auto”……. Quando al contrario, specificò il Rettore, l’I.S.S.A.M. era l’unico Istituto prestigioso!!!!
La nota, affettuosa ed attenta, con la quale lo stesso Istituto scrisse che teneva i miei disegni per buon auspicio, volendomeli riconsegnare “brevi manu” una volta mi fossi iscritto ai Corsi presso la Sede, fu per me sempre un piccolo orgoglio.
Purtroppo, ovviamente, la trasferta a Modena ed i costi delle rette annuali erano insormontabili per le finanze familiari: finì così, senza alternative, la mia parentesi passionale, anche perché dopo aver visto “Grifo 90” di Marcello Gandini mi sentii nella onestà morale ed emotiva per riconoscere che non sarei mai potuto essere a quel livello.
Tradussi tutto in una poco consolatoria Borsa di Studio in Marketing Management all’Istituto Europeo di Design e Comunicazione di Roma: da buon originario ligure, tra l’altro, la totale gratuità dovuta a solo cinque Borse di Studio nazionali (in un Istituto di ancora ottima caratura) era una ulteriore gratificazione per una scelta – ahimè – comunque di risulta. Concepire o promuovere le auto attraverso il Marketing era altra cosa rispetto al disegnarle.
Un proletario di Largo Colli Albani vestito alla Upim, dunque, che divideva le aule della centralissima Piazza Colonna a Roma con figli e familiari di Industriali e Vip stra-ricchi provenienti da tutta Italia e dall’Europa: fu una bella esperienza, anche se il mondo degli anni Novanta perdeva un Designer in erba e guadagnava un supercazzolarocommerciale in più.
Mi accontentai così di far parlare sempre e solo me, nella vita: le auto poteva farle parlare solo il Maestro Marcello Gandini.
Diversi anni dopo, quella sua “Lectio Magistralis” è stata occasione anche per me di imparare ancora – da lui –qualcosa di nuovo e di straordinario da tenere nella mente e nel cuore anche per tentare di essere sempre un poco migliori.
Spero davvero che i giovani, destinatari delle esortazioni e della sua premura, sappiano farne tesoro: tutto il comparto Automotive ne ha davvero grande bisogno.
Riccardo Bellumor