Cosa era il mondo che scorreva davanti agli occhi di un ventenne italiano, tra la fine degli anni Ottanta ed il 1990? Un ventenne, soprattutto, con la passione più sincera per la bellezza dell’automobile?
Il mondo era diventato improvvisamente un vaso di Pandora pronto a scoperchiarsi svelando all’Occidente una verità che, purtroppo, avremmo imparato a temere proprio ad Ovest del Pianeta.
Fino ad allora l’operazione più globalista nota alla conoscenza del sottoscritto era stata quella di Honda, che aveva creato due sedi dalle sponde opposte dell’Oceano, in Giappone e una negli Stati Uniti: in pratica due Centri progettazione ed engineering separati da un fuso di dieci ore.
Alla chiusura di una delle due sedi i server avevano il tempo di impacchettare il volume di dati giornalieri, trasformarli in segnale analogico ed inviarli in VPN telefonica al server della sede che avrebbe aperto poche ore dopo; e così via, in senso opposto.
Quando la maggior parte di chi – come me – aveva l’età adatta a comprendere ed elaborare i temi della fine dei blocchi, dell’apertura delle frontiere, del mondo globale si trovò di fronte il nuovo palcoscenico mediatico della Cina di Tien An Men e del muro preso a picconate a Berlino, per un attimo abbiamo creduto che gli anni Novanta ci avrebbero regalato qualcosa più emozionante di quello che avevamo avuto la fortuna di vedere fino a quel momento.
Non sapevamo ancora che la meraviglia e la favola bella era alle nostre spalle; e che da occidentali avremmo pagato caro il senso tutto occidentale della “espansione”.
E non sapevamo allora che l’Automotive delle Nazioni e dei “campanili” opposti tra loro in Europa aveva regalato il meglio di sé fino a tutti gli anni Ottanta; mentre l’open Space comunitario avrebbe cominciato, spero involontariamente, a smantellare parecchio dell’architettura motoristica che il vecchio Continente aveva saputo costruire dal Dopoguerra a seguire, superando indiscutibilmente i totem a stelle e strisce e preparandosi al nuovo pericolo emergente giapponese.
Nulla di tutto questo, tirando le somme anni dopo. A parte la distruzione chirurgica del patrimonio Automotive europeo, tante delle premesse e quasi tutti i “desiderata” per un mercato più evoluto e progredito sono svaniti nel nulla delle promesse mancate ma anche della mano asfissiante e perniciosa delle normative comunitarie.
Nelle quali la parola d’ordine dominante era “razionalità”: la razionalità del Diesel portato come manifesto tecnologico dell’Europa motoristica; la razionalità del catalizzatore, della sicurezza e delle nuove tecnologie costruttive “eco-friendly”. Spazio per l’emozione? Zero, come tuttavia l’attenzione per quella eccellenza artigianale con cui solo noi italiani avevamo saputo fino ad allora valorizzare il repertorio sensoriale degli automobilisti: vista, tatto, ascolto; persino l’olfatto, gratificato dal profumo della pelle cucita a mano, dell’alcantara e del legno lavorato negli inserti del cruscotto e degli interni.
Dietro tutto questo, per chi non ci avesse fatto caso, c’era stato paziente il lavoro virtuoso di talenti italiani capaci di portare avanti e perfezionare giorno dopo giorno concetti e linguaggi di Design che hanno fatto grande l’Automotive italiano nel mondo; forse troppo grande, persino. Al punto di gettare ombra su una potenziale concorrenza continentale.
L’Europa Unita e la fine della “biodiversità” automobilistica
Era il 1947 e per la prima volta un Museo d’Arte Moderna, il Moma di New York, aveva riservato il suo illustre spazio espositivo ad una forma d’arte in movimento, cioè ad una automobile.
Era la Cisitalia 202 disegnata da Battista “pinin” Farina, ma non era certo stata quella la prima creazione in grado di spiegare al mondo che la visione italiana dell’auto e del suo stile sarebbe diventata a buon diritto la più prestigiosa del mondo. Da allora e per i 40 anni successivi a quell’evento del Moma avremmo, da italiani, dettato legge. Giocando in casa e fuori, Bruno Sacco docet.
Cosa stava accadendo tra quella fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio successivo?
Che l’Europa doveva creare il suo “archetipo” internazionale in grado di rendere l’Automotive dell’Unione riconoscibile in tutto il mondo, impermeabile alla minaccia giapponese, contrapposto al prestigio dell’auto orientale e statunitense. Ma soprattutto un modello produttivo ed ingegneristico dominato da una parola che per buona parte dei consumatori europei era davvero insolita: “Qualità Totale”.
Quasi che prima di allora la qualità fuori della nascente, progressiva ed inesorabile stella germanica fosse solo un concetto filosofico e non un protocollo industriale.
Oggi sappiamo che tutta questa “fuffa” preventiva al battesimo ufficiale della U.E. di Maastricht – alimentata sia dalle istituzioni di Bruxelles che da una propaganda mediatica un tantino “di parte” – in realtà è servita a disinnescare la fenomenologia industriale inglese ed italiana, con la pulizia etnica di Marchi e di protocolli costruttivi fino a poco tempo prima determinanti.
A fare presto le spese di questo nuovo razionalismo europeo dove la cura artigianale, l’emozione, la personalità dinamica e sportiva e la distinzione tecnologica erano diventate orpelli inutili ed antidiluviani rispetto alla meraviglia de “gli accoppiamenti delle plastiche che non scricchiolano” (frase testuale ripresa da un Periodico nazionale di settore…a quattro ruote…., praticamente colto in fase di autoerotismo automobilistico nel descrivere la plancia di una berlina tedesca) è stato per primo il mercato delle auto artigianali di grande sportività e grandi prestazioni.
E su questo comparto l’industria italiana deteneva un primato non solo simbolico di Marchi, di Distretti, di subfornitura, e soprattutto di “nomi”: vere genialità della progettazione, del Design e della manifattura.
In pochi anni parlare in Europa di berlinette a due posti, o 2+2 con prestazioni estreme ed un nome altisonante pareva essere diventato un reato contro la morale comune; concepire motori con potenza specifica superiore ai 70 cavalli per litro una istigazione a delinquere e superare cilindrate “popolari” una offesa al buon gusto.
Tutto questo avrebbe portato in poco tempo alla distruzione di un filone culturale e non solo industriale in Europa, ma quello che in un certo senso ha più fatto sensazione – almeno a giudizio personale – è stato il totale disimpegno – a partire dalla fine degli anni Ottanta – di alcuni nomi illustri della categoria delle “Dream Cars” usciti di scena rispetto ad una iper presenza e ad un impegno esuberante dei decenni precedenti.
Pulizia etnica, colpevole come quella del conflitto balcanico, perpetrata ai danni della biodiversità del mercato auto. Senza nessun Tribunale dell’Aja che potesse sanzionare le giuste condanne per i colpevoli.
Un caso esemplare di “dismissione” dal mercato pregiato sul versante “mass market” è stato quello di Alfa Romeo: dopo la presentazione della lunare (e per me bellissima) SZ del 1989 gli anni Novanta del Marchio del Biscione sono stati il decennio decisamente più avaro di modelli “special”; superfluo parlare di Innocenti ed Autobianchi, la cui eutanasia dentro la galassia Fiat ha di fatto tagliato fuori due protagoniste di una serie di progetti e di “concept” fino alla prima metà degli anni ’80.
Lancia ha invece vissuto, negli anni Novanta, l’inizio della schizofrenia che l’avrebbe accompagnata da allora sino ai giorni nostri: il filone della Delta I° Serie plurivincente si contrapponeva alla progressiva scomparsa di modelli e versioni speciali commerciali o in versione “concept”.
Potrei continuare l’elenco con esempi che toccano un po’ tutti i Marchi nazionali negli anni ’90, ma quello che forse suggestiona di più è un sensibile “vuoto” di presenza e di proposte da parte delle grandi firme dello Stile italiano in tema di auto da sogno, di iper sportive e di modelli di grande impatto emotivo.
Pareva quasi che dopo la “sbronza” anni ’80 alcuni nostri portabandiera avessero voluto imporsi una dieta “disintossicante”, oppure una penitenza per le esagerazioni oniriche che ogni appassionato attendeva regolarmente ai Saloni dell’Auto.
In questo ha influito certamente un indirizzo industriale che alcune firme di stile hanno potenziato negli anni ’90: citandone alcuni (tra Rayton Fissore, Bertone, Pininfarina) che più intensamente hanno avviato linee produttive a supporto dei Costruttori, risulta evidente che il profilo di Business più “massivo” rispetto alle strategie del decennio precedente ha generato un cambio di profilo stilistico e concettuale.
Marcello Gandini, la sua battaglia controvento anni Novanta
Eppure, nella revisione e nella ricostruzione di quel decennio anni Novanta, è giusto ricordare la sfida che singolarmente e quasi controvento ha abbracciato Marcello Gandini: un uomo ed un genio che – come ho a volte rappresentato nei miei ricordi – ho conosciuto abbastanza avanti nella mia età ma del quale, sono sincero, non avevo mancato di apprezzare nessuna delle sue creazioni, fissandole nella mia memoria e facendone “scalini” attraverso i quali costruire la mia passione e consapevolezza motoristica ed Automotive. Non è esagerato affermare che grazie a Marcello Gandini si è cercato di mantenere viva quella “biodiversità” virtuosa del mondo Auto che le nuove e pedanti regole dell’Europa Unita cominciavano a mettere in crisi.
Ad elencare le creazioni di Marcello nel frangente temporale che va dalla fine degli anni Ottanta alla prima metà degli anni Novanta si percepiscono le prerogative che hanno rappresentato il valore qualitativo del Maestro e nello stesso tempo la sua stessa involontaria “pistola puntata” contro, quando la sua indole ed il suo stile lo ponevano sempre e comunque fuori dagli schemi e dai filoni “mass oriented” ai quali molti suoi colleghi incedevano fatalmente e forse un po’ troppo spesso.
Ebbene, è stato proprio quel talento naturale di Gandini nel saper tradurre, anticipare e proiettare in linee e volumi le evoluzioni socioculturali, tecniche e commerciali che nell’immediato futuro avrebbero caratterizzato una determinata fase temporale; il tutto, badate bene, in quella modalità concettuale con la quale Gandini riusciva sempre a costruire nelle sue creazioni una tridimensionalità tale da irrompere nell’ambiente circostante provocandone una crisi dimensionale dall’esito inesorabile, che cioè era l’ambiente ad adeguarsi al mondo di Gandini e non il contrario.
Dico questo ed ovviamente il vostro pensiero va all’effetto dirompente che la Lancia Stratos ha avuto su un intero comparto agonistico, generando una guerra dei mondi che ad inizio anni Settanta ha messo a confronto un Evo antico (quello delle auto concorrenti alla berlinetta di Chivasso) con quella nuova dimensione automobilistica sembrata provenire da un altro pianeta; oppure alla new age che la Countach ha saputo inaugurare facendo del secondo gioiello più caratteristico di sempre della Lamborghini (il primo resta la Miura, pur sempre del Maestro) la prima “concept targata” della storia del mercato auto, dal momento che quella meraviglia uscita per Sant’Agata Bolognese dalla matita di Gandini mise a disposizione del Cliente stradale tutti gli azzardi e le innovazioni concepite usualmente per prototipi da sogno che restavano tali dentro ai Saloni dell’Auto per l’immaginazione degli appassionati.
Pensare alla Lancia Stratos ed alla Lamborghini Countach, oppure in tempi più recenti alla Cizeta V16 è sin troppo immediato: vorrei spingervi al contrario a pensare alla discreta rivoluzione della Innocenti Mini 90, oppure alla strada aperta dalla concept Garmisch; oppure alla demolizione delle convenzioni e degli stereotipi avvenuta con le Maserati “Shamal” e Quattroporte “IV”.
Modelli che apparentemente non risaltano nei richiami dell’immaginazione didascalica quando si cercano nella memoria creazioni dirompenti, anticonvenzionali, avventurose ma soprattutto eclatanti.
L’auto come scultura in movimento: il credo rivoluzionario di Marcello Gandini
Perché molte delle opere di Gandini ci sono state regalate nella forma più elegantemente perversa e traditrice dell’essere rivoluzionari: quella della sottile armonia tra contrasti, come spero di definire in modo comprensibile questa speciale dote del maestro; quella armonia di contrasti che ha fatto colpo su tutti ma che riusciva a stimolare e ad affascinare solo gli occhi più smaliziati e profondi. Un po’ come la pietanza di un vero re degli Chef, in grado di piacere davvero a tutti ma che solo i palati più fini sanno apprezzare nelle più speciali sfumature.
Quell’arte speciale nella composizione e costruzione formale di un solido automobilistico (tale è la carrozzeria) nel concetto di Gandini, dove l’esperienza sensoriale si scontra con tre momenti in continuo antagonismo tra di loro: la percezione di un “unicum” determinato dalla visione d’insieme; una rosa di elementi di stile in discontinuità o persino in contrasto tra loro; ed infine un insieme di complementi funzionali (dagli pneumatici alle prese aria dinamiche, appendici e scivoli aerodinamici, fanaleria e vetrature, etc…) che solo grazie al segno sapiente di Gandini finiscono per divenire parte integrante e non inserzione o componente esterna della linea generale. Chi davvero sa esercitare l’occhio nella visione attenta e proattiva della realtà è stato colpito, spero, da una caratteristica che Marcello Gandini condivide nelle sue opere, con la scultura: l’occhio non si limita a guardare, ma per apprezzare in pieno si deve “appoggiare” sul gioco di linee e di luci ed ombre che solo mani e menti speciali possono immaginare.
Nel tempo avrete sentito diversi concetti essere espressi con riferimento al termine “Industrial Design”: trascurateli; per Gandini il Design era l’ambito nel quale l’Industria si riteneva in dovere di regalare al fruitore di un bene la bellezza propria di un’opera scultorea.
Per questo non disegnate di analizzare e onorare la signorilità e la grazia che Gandini ha voluto regalare ai futuri acquirenti della “Mini 90” astraendo come pochi altri (uno dei quali certamente Pio Manzù) il concetto di utilitaria dal concetto di “proletariato”.
Sarebbe bello un giorno analizzare quanto il lavoro dei grandi Maestri di stile sia stato influenzato dagli eventi socio economici e culturali nel corso dei tempi: le contestazioni, le lotte operarie, lo “Yuppismo”, la rivoluzione digitale.
Il lavoro paziente e silenzioso di Marcello Gandini in tutto questo ha finito per sorprendere in primo luogo me stesso: incredibile, per Voi che siete stati allattati mentre la mamma Vi distraeva già con un cellulare, credere che il sottoscritto alla età di venti anni, nel 1990, non sapesse neppure che faccia avesse, il Maestro Marcello Gandini. Io che avrei potuto fare la scheda anamnestica di ogni sua creazione, e che impazzivo già all’epoca per la sua “BX” che per me rappresentava la “summa” teologica del concetto di auto moderna per famiglia, non sapevo nulla di Marcello Gandini persona. Altro che “Privacy”. Il problema era la “privazione” dai palinsesti di TV e riviste del profilo individuale di Gandini.
Per contro, del decretato (dai Media dell’epoca) contraltare di Marcello, cioè Giorgetto Giugiaro, potevo e potrei tuttora regalarVi un saggio di notizie, aneddoti e racconti personali che già conoscevo da anni prima: il Trial, l’Istituto d’Arte, gli inizi con Giacosa, il rifiuto di avallare una modifica estetica di un Costruttore giapponese su una sua creazione; e poi le coreane (Hyundai), la Necchi, le penne e gli orologi, i vestiti e le biciclette per l’Argentario e Capalbio, la nautica, la pasta Barilla.
E ovviamente, sarei un ipocrita se non lo dicessi, per me Gandini e Giugiaro erano e sono sempre stati quel tandem da “Derby” dei migliori di fronte a cui altre firme purtuttavia meritevoli e straordinarie (Ercole Spada, Fioravanti, Cressoni e tanti altri nomi) non potevano che sedere in seconda fila. Ovvio, con il senno di poi, che le scalette, le griglie e le classifiche derivassero dalla mia età ancora abbastanza giovane, dalla stupidità latente e dalla mala informazione mass mediatica.
Quella “BX”, peraltro diffusissima in tutta Europa e sulle strade italiane (ma se volete provate a riguardarVi anche la Supercinque del 1984…), ogni tanto mi incrociava insinuando poco a poco nella mente e nella coscienza quel “Signor Gandini” poi per me diventato “il Maestro Gandini”.
Quello che il Designer ha regalato, dunque, in quell’intervallo temporale tra fine anni Ottanta e metà anni Novanta è stato un campionario da sogno: la “Diablo” stessa, se non vi fosse stato l’ostracismo di quel sedicente genio del Marketing che fu Iacocca (geniale per una scelta su tre, disastroso per almeno le rimanenti due), sarebbe nata prima degli anni Novanta; ma ammirate le Maserati “BiurboRestyling” “Shamal” e “Ghibli II° Serie” o la divina “Quattroporte IV°”; incuriositevi dalle concept “De Tomaso”, Maserati “Chubasco”, Qvale Mangusta, e ovviamente riflettete sui concetti anticipati per il prototipo di studio per Bugatti oltre che dalla opera unica “Cizeta V16”.
Per poi ricordare, spero molti di Voi, che questo elenco di sogni a quattro ruote che fanno di Marcello Gandini il campione seriale di Supercar nel periodo – soprattutto di fronte ad una contrazione importante della concorrenza – sembra colossale e sovrumano per un disegnatore straordinario che ha sempre sviluppato personalmente ogni concetto di stile senza delegare ed “acquisire” l’opera di altri, ma che ha sempre e comunque passato ore sul foglio bianco con matita e metodo classico ed inossidabile, quello della mano che passa infinite volte sulla carta per creare una linea e per correggerla impercettibilmente ad ogni nuova modifica e colpo d’occhio.
Iso Grifo “90” e Marcello Gandini: la “filologia” applicata nell’Automotive
C’è infatti, dunque, un’opera spesso trascurata che per me invece può rappresentare una sorta di “sineddoche” per definire e capire l’approccio concettuale di Gandini: si tratta della “Iso Grifo 90”. Volete che Ve la racconti per come l’ho vissuta? Ecco qua……..
“Driiiin……Driiiin……” “Pronto?” “Ciao, Sergio. Sono Riccardo; la sai la novità?”
Giugno 1991, serata tiepida e tipicamente estiva. Cabina telefonica Sip Telecom, Largo dei Colli Albani in Roma. Una provvista di gettoni, rassicurante, e la pazienza messa a dura prova dei pochi in attesa fuori per poter chiamare a loro volta. Non sto chiamando molto lontano dalla Capitale, ma la micidiale teleselezione prima delle ore 20 e trenta fagogitacon il classico suono di “insert coin” un bel po’ di gettoni durante dieci minuti circa di telefonata. Io ad un capo, all’altro risponde l’Ingegnere ed amico Sergio C.: conosciuto nell’ambito della passione motoristica, è all’epoca un ottimo tecnico della “Aluminia” di Castel Romano. Avuto un trascorso Automotive importante, aveva cominciato a lavorare alla Iso Spa di Bresso, nel 1973. Solo due anni prima che purtroppo la crisi spegnesse gli interruttori di uno dei Marchi più leggendari del panorama europeo anni Sessanta e Settanta, per poi passare a Mirafiori ed infine alla Bertone.
Per inciso, suo è tra gli altri progetti il sistema ed il telaio capote della Ritmo Cabrio.
Torniamo alla Iso Rivolta: Siamo nel 1989, e questa parte di storia mi è sconosciuta fino a quando, il 12 Giugno del 1991 non verrà presentato il prototipo della protagonista di questa storia. Piero Rivolta è per la storia di quel periodo il più giovane Capo di una Azienda di Auto, avendo preso il timone della Iso di Bresso a 25 anni per sostituire in emergenza papà Renzo deceduto improvvisamente a 58 anni; contemporaneamente è ancora un giovane uomo d’affari in ambito immobiliare ed ha conservato il sogno di riportare in auge il Marchio paterno. Nel 1989, ritorniamo a questa data, fonda di nuovo la “Iso” insieme a Piero Sala ex Direttore Commerciale ed A.D. dell’ultima fase a Varedo nel 1974: Sede Legale a Milano, Sede Societaria a Villa Freni, in Baggiovara (Modena) vicino alla Factory parmense di Giampaolo Dallara, altro nome forte coinvolto nel progetto.
La parte “industry” e manifatturiera del quale è dentro i capannoni della Finsita Holding dei fratelli Vinella a Conversano (Bari). Questi hanno rilevato nel 1987 dal Gruppo Fiat la Sita S.p.A., azienda di Bus e Pullmans. La nuova realtà di trasporti va a gonfie vele, con nuovi Stabilimenti e soprattutto commesse da tutta Europa. Peccato che le premesse non saranno lo specchio della fine anticipata di questo sogno a quattro ruote previsto all’epoca (1994) ad un prezzo di vendita di 300 milioni di Lire. I fondi ed il credito previsto, ipotizzato e richiesto non perverranno mai alla Iso per la linea produttiva di Conversano. Curioso che al contrario solerti Funzionari ministeriali e dell’Unione Europea forniranno i fondi della Legge 488 ed i contributi comunitari per lo straordinario progetto Isotta Fraschini del Dottor Malvino a Gioia Tauro, nel 1993……
dal 1974 al 1990 sono passati quindici anni, plausibile (come rivela in una sua News del tempo Autosprint) che Piero Rivolta (figlio del Commendator Renzo) abbia in qualche modo reperito o ritrovato riferimenti ed indirizzi della maggior parte dei collaboratori e degli impiegati a Bresso e Varedo durante la vita attiva della “Iso”. Il sogno? Ovviamente quello di riportare sul mercato il Marchio del Grifone presentando ovviamente una Supercar in linea con i paradigmi industriali tradizionali per la Iso.
Sergio C. è uno di quei contatti e sa molto bene la notizia, da prima della mia telefonata: Rivolta Junior intende ricostruire lo Staff più possibilmente vicino alla professionalità ed allo spirito di quella fabbrica leggendaria, un elemento qualitativo e distintivo in più anche per colpire l’immaginario dei potenziali Clienti.
Sergio è stato già contattato da un suo amico dei tempi della “Lele”, e ovviamente sta ragionando sull’eventuale da farsi, mentre incuriosito si domanda se mai verrà contattato e se mai la “Iso Rivolta” tornerà in campo. Sappiamo tutti come quella ipotesi sia finita, ma continuiamo a ragionare sul progetto “Grifo 90”.
Dal lato stilistico ed iconico, Rivolta non chiama (nonostante quello che all’epoca la Stampa dichiara abbastanza distrattamente) il Designer che per ultimo ha avuto un rapporto professionale con la Iso Rivolta SpA. Infatti l’ultimo in ordine assoluto è Fabrizio Spada che con Giotto Bizzarrini realizza nel 1972 la “Iso Varedo”, basandosi su un telaio e su uno schema a motore centrale che il mago livornese ha realizzato poco prima per la “AMX”.
Piero Rivolta decide di chiamare colui che nel periodo più difficile del Marchio di Bresso ha comunque garantito continuità identitaria e bellezza distintiva alle creature a quattro ruote della Iso. Rivolta sente che l’unico davvero in grado di ricreare la magia è Marcello Gandini.
Non si sbaglia, perché quello che nasce con la “Grifo 90” non è solo un prototipo capace di emozionare e potenzialmente di successo: la “Grifo 90” è un manifesto filologico di rivendicazione del pedigree europeo ed italiano più nobile dell’auto sportiva di quel periodo.
Sapete cos’è la filologia? Uno dei termini che mi hanno colpito nel profondo dell’animo, spiegatomi dal mio caro vecchio Professore Antonio di Cicco, al Liceo: è la disposizione artistica e professionale a ricostruire nella sua esatta e più pertinente interpretazione a posteriori un soggetto specifico (più usualmente un testo, ma come vedrete non solo) al fine di ripresentarlo nel futuro in un modo che rispetti in pieno lo spirito ed il messaggio di quel soggetto.
Filologia non è mera “reinterpretazione”, non è “riedizione” di qualcosa: è trasposizione nel contesto corrente di quello che esattamente intendeva trasmettere alla sua epoca il soggetto da trattare. Se in campo Automotive riuscite a ritrovare un solo nome, oltre a quello di Marcello Gandini, capace di applicare il concetto rigoroso che il Maestro ha applicato per “Grifo 90”, prometto che Vi “spiccio casa” (sinonimo romano per pulizie domestiche) per una settimana.
Iso “Grifo 90”: e la magia di Bresso torna regina nel 1990
La capacità filologica di Gandini non era nuova, nel 1990. Si era già ampiamente dimostrata quando il Maestro era alla Bertone, ed era proseguita perfettamente nel periodo successivo, della professione libera ed autonoma.
Potrei elencarVi i riferimenti filologici delle Maserati negli anni Settanta, ma credo Vi basti pensare al rapporto filologico oltre che evolutivo che c’è tra la Renault “5” prima serie e la “Supercinque” del 1984. Il più bravo Designer del tempo avrebbe cercato in primo luogo il rispetto del “Family Feeling” della nuova utilitaria con l’immagine del Brand francese. E avrebbe fatto un lavoro a metà. Oppure avrebbe perseguito l’evoluzione razionale degli elementi caratteristici della “Cinq” prima serie al fine di aggiornarli, ed avrebbe ottenuto un risultato discreto ma non sorprendente.
Ci voleva l’arte di Gandini per fare della “Supercinque” quello che è stato: un Marchio proprio all’interno di un Marchio più grande. Supercinque nel mondo e nella storia non è stata solo la piccola Renault “sotto” la 9 e la 11. E’stata “LA” gamma Renault in tema di piccole di prestigio, diventando quasi un Brand a parte. Pensare questo oggi è la norma, ottenerlo quaranta anni fa era fantascienza per chi non fosse Gandini. E se gli altri cercavano appunto di formalizzare l’espressione migliore di “Family Feeling” lavorando in batteria su diversi modelli di uno stesso Marchio, Marcello regalava invece ai Costruttori dei veri e propri nuovi riferimenti canonici intorno ai quali ricostruire tutta l’immagine del Marchio.
Iso “Grifo 90” in fondo voleva essere a suo modo proprio questo: il nuovo riferimento filologico per la rinascita negli anni Novanta di tutto il Marchio Iso Rivolta. Il fatto che Gandini abbia curato la vestizione sulla base di un presupposto tecnico di default (lo schema meccanico della Chevrolet Corvette) non ha minimamente impedito al Maestro di creare ai limiti della migliore immaginazione, quasi che i vincoli di piattaforma non esistessero.
Marcello si trovò di fronte a quel fatidico foglio bianco che, soleva dire, non lo spaventava. Ma Dio solo sa quanto “scottasse” quella carta nobile su cui stava per incrociare le lame la matita magica di Gandini. Dentro i tratti e le linee che sarebbero pervenute alla “Grifo 90” c’erano i destini futuri del Marchio insieme al rispetto delle migliori tradizioni, l’ispirazione e la magia originaria, e persino il senso di sfida con cui a metà degli anni Sessanta Renzo Rivolta intese presentarsi nel mondo delle Supercar.
Forse mancava solo quel Giotto Bizzarrini coraggioso nel dire al Commendatore Rivolta :” Butti via il telaio della Gordon Keeble e tenga il motore della Chevrolet che è una bomba”: per il resto la consulenza di Giampaolo Dallara, dei componentisti italiani di eccellenza e dei preparatori più rinomati della “Corvette” furono co-protagonisti della fase di engineering che vedeva la vestizione di Gandini come il fiore all’occhiello della nuova sfida. Vinta a 360°, perchè non poteva esservi linea più azzeccata nel contesto per la “Grifo 90”.
Un Manuale etico per la “rinascita” di Marchi prestigiosi: Iso Grifo 90 by Gandini
Avviso ai lettori, come ho già ripetuto. Oggi aprite un Blog, o le pagine di una rivista, e siete circondati da notizie legate alla “rinascita” di Marchi storici e di prestigio: MG, De Tomaso, Isotta Fraschini, Bizzarrini, Ermini, ATS, Lister Jaguar, persino una inspiegabile riedizione della “Iso A3/C” di Zagato, e una serie interminabile di proposte ed ipotesi. Il Marchio storico “tira” anche perché l’opzione elettrica e la condivisione delle piattaforme, oltre al nuovo mercato asiatico, sono le nuove leve commerciali e di Business.
Ma Vi assicuro che nel 1990 parlare di rinascita di Marchi storici era pura eresia, in Occidente. Reagan aveva lasciato in eredità le norme antipollution e di riduzione dei consumi in galloni di benzina più restrittive del decennio; la General Motors lanciava la sua prima elettrica di serie con la benedizione del mondo Grunge ed ambientalista. L’Europa Unita anti benzina rossa e pro catalizzatore cominciava la sua avanzata; e non dimentichiamo il petrolio con il suo costo in Dollari al barile, in un Vecchio continente dove l’unica valuta forte era il Marco.
Ma è lo stesso contesto che ha esaltato lo spirito libero, aristocratico ed operaio allo stesso tempo, giudizioso ed appassionato di Marcello Gandini. “Grifo 90” è una appendice casuale ed episodica del mondo del Design per come viene raccontata e descritta generalmente. Mentre invece è una pietra miliare, un tomo da Lectio magistralis, una pietra miliare di come deve è dovrebbe essere un progetto di rinascita di Marchi storici e prestigiosi.
Guardatela, da ogni angolo e da ogni lato. Il repertorio fotografico per fortuna è stato implementato dall’iniziativa industriale di Mako&Shark, che ha riprodotto ad inizio anni 2000 un lotto di “Grifo 90” su base Corvette Callaway. Il che conferma la capacità di Gandini nel proporre un prodotto industrializzabile in toto senza essere posticcio o impraticabile.
Dentro il gioco di linee e volumi della “Grifo 90” ci sono in armonia assoluta i richiami simbolici gloriosi della Iso di Bresso, c’è quel desiderio storico di Renzo Rivolta di “entrare in auto con il cappello in testa” (sinonimo di una spaziosità e di un benessere interno di rango); c’è il richiamo evocativo alla “Iso A3/L” e “Grifo” anni Sessanta senza tuttavia cadere nella rivisitazione meccanica e stereotipata del modello di origine. Ed è questo il primo miracolo di Gandini sulla “Grifo 90”: riuscire ad essere innovativo e non replicante, dando alla nuova Iso la firma di stile del Maestro visibile in un complesso di particolari estetici e funzionali che esaltano la paternità del disegno.
Insieme a tutto questo, in un periodo in cui le nuvole del pessimismo e della precarietà del futuro cominciavano a fare capolino nella società occidentale, Gandini interpone una discrezione ed un rispetto ambientale che distinguono la “Grifo 90” da alcune esagerazioni e carico aggressivo. L’obbiettivo è centrato, l’apparente semplicità ed immediatezza di insieme della “Grifo 90” nascondono dunque il segreto, impegnativo e sofferto, di chi spesso finisce per questa sua condizione straordinaria nell’essere un guerriero solitario ma non per questo desolato.
Marcello Gandini regala con la “Grifo 90” una nuova prospettiva potenziale alla Iso, regala un momento di speranza e rinascita all’auto europea di emozione, regala a se’ stesso una nuova sfida vinta.
Perché state ben certi che solo lui, Gandini “genio controvento” poteva abbracciare una sfida che altri colleghi persino più ridondati mediaticamente non avrebbero avuto la forza e l’entusiasmo di perseguire.
Ed è per questo che quella Iso “Grifo 90” resta nel mio cuore un esempio di passione eretica ed allo stesso tempo una prova di orgoglio che, a distanza di trenta anni, ci ha regalato una delle più belle proposte di Gran Turismo estreme.
Riccardo Bellumori