Cisitalia D46: il piccolo genio di Piero Taruffi

Villa “Palazzina Federici” Corso Galileo Ferraris 73. Torino.
L’ultima volta che l’ho salutata, dal vivo, e’ stato esattamente un anno fa.
Dentro una cornice urbanistica già di suo aristocratica ed elegante, non risalta molto rispetto
al panorama del luogo.
Girando su Via Valeggio, dal muro di cinta puoi vedere un giardino sul retro, con una sorta
di “capanno” in legno e vetro, il tutto dominato dalle pareti della Villa dove, all’ultimo
piano sulla sinistra trovi in particolare due finestre.
Ottant’anni fa quelle due finestre, con le persiane in legno perennemente socchiuse per non
far vedere da fuori la vita che si svolgeva all’ interno, sono state l’ambiente di una piccola
storia leggendaria.
Quella che Vi racconto, amici di Autoprove, perché in tempo di film commemorativi
sull’auto, questa storia sarebbe un tema perfetto.
Questa villa è la dimora di un ricco Industriale di Scurzolengo, molto geniale ed
avventuroso, che non intende rimanere in disparte di fronte alla nuova era post bellica che
sta per arrivare. Guarda avanti, e l’unica cosa che sa fare oltre ai soldi è “immaginare”.
Si è fatto le ossa con l’attività tessile di famiglia, ad Alba, e pur essendo ancora
relativamente giovane è arrivato alla soglia del 1944 come: calciatore professionista alla
Juventus, Pilota automobilistico, Consigliere ed infine Presidente bianconero, e per effetto
del conflitto bellico ha concentrato le sue energie nelle forniture militari, facendo
letteralmente fortuna.
La sua “Holding” iniziale, la “Manifattura Bosco S.A.” confluisce nel “Consorzio
Industriale Sportivo Italia“ che viene insediato in una bella palazzina industriale del 1910
(di proprietà della Ansaldo) al civico 251 di Corso Peschiera che colpita dalle bombe il 28
Novembre 1942 è stata ristrutturata dal Comune: qui si inizia con la produzione delle
biciclette dell’amico Lino Beltramo (che, colpevole di antifascismo, i repubblichini di Salò
hanno appena sfrattato dalla sede storica di Via Lessona): ma già due anni dopo sulla
facciata della palazzina di Corso Peschiera appaiono le insegne della “Cisitalia S.p.A”
(Presidente Pietro Monateri, che nel 1930 era tra i fondatori della “Soc. An. Carrozzeria
Pinin Farina”) nata l’8 Marzo del 1946, e comincia così una delle storie automobilistiche
più leggendarie d’Italia e nel mondo.
Le bici sono un “incidente di percorso”, perché animato dalla esperienza e passione di Pilota
sportivo e interessato dal potenziale di crescita dei trasporti privati su ruote, Piero Dusio –
l’industriale di Scurzolengo – chiede i primi consigli ad un geniale Ingegnere/Pilota/filosofo
(ed a sua volta “marziano”) di Albano Laziale: Piero Taruffi.
Perché Dusio conosce benissimo il mondo degli affari, ma senza il genio pragmatico di
Piero Taruffi il suo sogno indefinito di automobile sarebbe rimasto solo un miraggio.

Dusio chiede a Taruffi come rimettere l’Italia in moto ma soprattutto in “Gara”.
Il mondo delle competizioni, non solo in Italia, è diviso tra i pochi fortunati che possono
pensare in grande e prepararsi alla riapertura dei santuari dello sport (Montecarlo, Targa
Florio, Mille Miglia, Le Mans, Nurburgring…) contro un esercito di piloti talentuosi ma
poveri che guardano alla “Topolino” Fiat come ad una meta agognata per correre su strada o in montagna (i circuiti chiusi sono ancora lontani dall’essere agibili);
manca in tutto questo una scelta interessante e completa di piccoli prototipi buoni per ogni
contesto ed in grado di far arrivare i piloti alle classi “minori” internazionali in breve.
L’idea iniziale? Una leggera monoposto da vendere in piccola serie, sufficientemente
economica ma prestante per permettere a tanti piloti di tornare a correre – su strada,
montagna, campagna, Pista – senza svenarsi; ed alla futura Cisitalia di diffondere il suo
Marchio in tutta Europa, anche se nelle cosiddette “Categorie minori” che i Regolamenti
FIA avrebbero istituito di là a pochi anni.
Le basi meccaniche e le dotazioni della piccola, ovviamente, sarebbero provenute da auto di produzione nazionale, di serie di taglio popolare: in una sola parola, dalla FIAT.
Per questo motivo, nella mezza mattina di un giorno di Ottobre del 1944 il Signor Casalis –
collaboratore personale di Piero Dusio – su consiglio dello stesso Taruffi varca la soglia
della Scuola Duca degli Abruzzi a Torino.
Qui la distruzione della guerra ed il bombardamento di Mirafiori dell’anno prima ha
spostato gli uffici Tecnici e parte degli uffici amministrativi della Casa torinese. Sembra
incredibile a raccontarlo ora.
Casalis cerca uno dei più brillanti geni di quel periodo in FIAT, Dante Giacosa, per
chiedergli la disponibilità a collaborare ai progetti automobilistici di Cisitalia; ottenuto il
permesso da Casamadre, quel genio di 39 anni svela una volta di più la sua personalità
leggendaria, e testimonia all’uomo di Dusio la serie di cataclismi ai quali pazientemente si è
rassegnato in pochi anni senza mai venire meno al dovere professionale verso la sua
Azienda: dopo aver perso i genitori tra il 1938 ed il ’39, la sua casa torinese di Via Cristoforo Colombo è stata bombardata nel 1942 e non può far altro che dimorare di fortuna presso le “Ville Roddolo” a Moncalieri e solo grazie alla Fiat (che acquisita la originaria clinica psichiatrica l’ha appena trasformata in un convalescenziario per i feriti di guerra); pensate solo che nella sua biografia Giacosa scrive che per poter arrivare puntuale alla Scuola- ufficio da Moncalieri si era trovato nella necessità di trasformare in elettrico una sorta di primordiale biciclo motorizzato che serviva per spostarsi intorno ai magazzini di Mirafiori; riuscendo poi ad adattare quasi mezza tonnellata di batterie per auto dentro una Topolino in cui aveva piazzato un motore elettrico da pompa di profondità collegato alla campana del cambio; con quel mezzo elettrico, e le necessarie ricariche la notte a Moncalieri ed il giorno alla Scuola, Giacosa aveva di già inventato una delle prime Fiat elettriche.

Casalis, ottenuto il favore dell’Ingegnere e della Casa Torinese, torna da Dusio riferendo
alla lettera. Basta poco a quel geniale Imprenditore per fornire l’asso nella manica, ai primi
di Gennaio 1945, sottoponendo a Giacosa due contratti: uno di collaborazione fino a tutto il
1946, ed uno contemporaneo di comodato d’uso gratuito, per lo stesso periodo, per questa
Villa con cui ho aperto questo racconto.
Palazzina Federici attendeva dunque Giacosa con una camera, cucina, bagno, giardino
bellissimo, due stanze uso ufficio e persino domestico e guardiano nella già detta lussuosa
residenza di Corso Ferraris 73 ad appena 3 chilometri dagli uffici della “Duca degli
Abruzzi”.
Qui, dunque, Dante può rincasare in dieci minuti dal lavoro presso la Fiat ed al calore di una vecchia stufa a legna, dopo il Thè amorevolmente preparatogli dal Custode, può lavorare fino alla mezzanotte passata per mettere su carta la futura monoposto.
Sia ben chiaro, da questo racconto potete serenamente cancellare ogni immagine evocativa
di “relax”, “benessere” e comodità: orrori e privazioni della Guerra sono ancora là a lasciare
il segno, e lo capirete leggendo poco più sotto…
Al Sabato ed alla Domenica ad aiutare Giacosa arriva poco dopo anche un collega di Fiat,
Edoardo Grosso: il tempo stringe e bisogna fare gli straordinari.
La vita e gli “uffici” dell’ingegnere romano al piano superiore della “Palazzina Federici” si
affacciano proprio là, su quel giardino del retro: là, con persiane socchiuse e senza farsi
troppo vedere prende forma un miracolo di vetturetta.
La poesia della creatività meccanica si sposa alla vergogna della guerra, con il coprifuoco
descritto con il buio desolato ed il silenzio allarmante, mentre alla luce di una piccola
lampada da tavolo ed il bagliore del fuoco dentro alla stufa di ghisa Giacosa sogna, per ora,
lo sfrecciare delle macchine da corsa sulle strade del Dopoguerra ormai in arrivo.
Purtroppo nel comodato, involontariamente, cade anche la vicinanza alla Villa della
ignobile “Militar kommandanturen” al Civico 29 dello stesso Viale Ferraris, con i nazisti
che uscendo ogni giorno per razziare da Torino ogni risorsa e genere alimentare fanno
spesso incursioni nelle case danneggiando o requisendo quello che trovano.
Rendendosi protagonisti di atti di vero vandalismo, non risparmiano neppure gli ambienti di
Giacosa: forzando gli ingressi, con la servitù ben nascosta e protetta nelle cantine sottoscala,
le canaglie teutoniche entrano nella Villa senza trovare refurtiva a sufficienza, e con il calcio
di un fucile spaccano il tecnigrafo sul quale l’Ingegnere lavora, sgretolano un modellino in
gesso in scala della monoposto e ne spargono dappertutto la polvere residua; un regalo di
commiato dei futuri condannati da Norimberga.
Nonostante questo, Giacosa finisce per lavorare a quella vetturetta – che sta ormai
dominando i suoi sogni – fino alla fine : c’è da reperire, contrattare ed adattare tutta la
fornitura della Casamadre alla piccola futura monoposto identificata ormai da una sigla
storica: “D46”.

Il programma della Cisitalia D46 ha dentro di sé tutto quello che serve per farne un film alla
stregua di quel che si vede oggi al cinema.
C’è l’aria della Guerra e la ripresa postbellica, ci sono le difficoltà e l’avventura, ci sono
però anche i grandi nomi che si riuniscono per dare vita ad una impresa: riportare l’Italia e
l’Europa a correre. C’è il genio distillato di veri profeti, come Taruffi e appunto Giacosa.
Per questo la “D46” cerca di nascere con la maggior parte di componenti di serie originaria,
anche se ovviamente elaborate in casa: e la “Casa” è la Cisitalia, cioè un Marchio che in
quel momento aveva avuto esperienze solo sulle biciclette Beltrame, e che però grazie al suo
Patron aveva messo dentro il meglio dell’umanità del tempo.
La “D46” prende dal magazzino della Fiat tantissime cose, per non gravare su costi di
acquisto e manutenzione/ricambi: doveva infatti essere la monoposto da corsa non
elementare, di buon livello agonistico, per riportare l’Italia a correre.
Scommessa azzeccata: la “D46” costa meno della concorrente Stanguellini (che tuttavia è
più elaborata, rifinita e potente), ma è un gioiello di meccanica e stile rispetto alle essenziali Simca Gordini od alle realizzazioni “low cost” inglesi su base Austin.
Il motore è della 1100 tipo S – elaborato con doppio carburatore, testata in lega leggera e
rapporto di compressione 9,5:1 – in cui la potenza di 32 CV di serie arriva a 55/60 intorno ai 5.500 giri/min.
E, beninteso, con le “benzine” italiane di primo dopoguerra del tempo, fatte
fondamentalmente di alcool ed olio di ricino…
Cambio e trasmissione sono invece a metà tra serie ed elaborazione: per abbassare il
retrotreno e favorire le modifiche ai rapporti del cambio (basta smontare il coperchietto
posteriore e si cambia la coppia di ingranaggi) Giacosa inventa e brevetta una serie di
accorgimenti sulle parti di serie, e presenta sulle prime serie della monoposto il famoso
cambio a pedale a “due+una marcia”.
Con questo cambio, una leva sotto il piantone dello sterzo seleziona la prima o la
retromarcia, mentre il pedale frizione premuto in sequenza attiva contemporaneamente il
distacco della frizione ad inizio corsa e poi gli innesti di “seconda/terza” o le scalate.
In teoria questo sistema serviva per tenere il volante sempre ben stretto tra le mani in una
vettura dal sovrasterzo “infame”, visto che intraversa fin quasi nelle manovre di parcheggio: nella realtà durerà molto poco visti gli impuntamenti e la innaturalità di uso per troppi Piloti, e si arriverà in serie successive ad un suggestivo e sicuramente difficilissimo cambio posto al centro del pavimento, davanti al piantone dello sterzo e poco dietro la classica pedaliera a tre leve.
Dalla 1100 arrivano anche i freni a tamburo, dalla Topolino arrivano invece gli
ammortizzatori, i bracci anteriori rovesciati ed il sistema di sterzo, il volante, la pedaliera, il
circuito elettrico e il circuito idraulico dei freni.

Il resto è puro artigianato, e concorso di grandi geni

Giacosa, Taruffi, il telaista Motto, le maestranze Cisitalia; nasce il primo telaio di
derivazione aeronautica al mondo applicato alla produzione auto di serie (piccola); a
Settembre del 1945, nonostante tutte le controversie e le difficoltà, i disegni tecnici e
costruttivi della Cisitalia “D46” sono completi e perfezionati.
In più, al fine di rendere l’impianto di Corso Peschiera un vero e proprio Stabilimento (visto
che oltre che piegatubi, saldatori e troncatrici per le biciclette non si trovava altro), Giacosa
convince Dusio ad assumere un collega in FIAT, l’Ing. Giovanni Savonuzzi, che con pochi
mesi rivoluziona l’organizzazione della Factory.
La firma d’autore è proprio quel telaio in tubo al Chromo/Molibdeno proveniente dai
magazzini della Divisione aeronautica di FIAT ed ovviamente sagomato, tagliato e saldato a
Corso Peschiera.
Per “vestirlo – anche se Giacosa e Taruffi in concorso avevano già tratteggiato la famosa
“fusoliera” di alluminio – partecipano anche Giovanni Savonuzzi (che in parallelo – vista la
sua provenienza aeronautica – si affianca nello studio aerodinamico della “D46”); ma c’è
anche il tocco di stile aristocratico di Mario Ravelli de Beaumont, ottimo Designer ed amico
di Giacosa: è lui a definire proporzioni, linee di giunzione a vista dei lamierati, ed a studiare
il set di personalizzazione (fanaleria, parabrezza, selleria) come se parlassimo di una vettura
Premium.
E da Ravelli di Beaumont arrivano le raffinatezze, come i meravigliosi cerchi in alluminio a
raggi “Borrani” (perché Giacosa, più essenziale, suggeriva i cerchi in lamiera della
“Topolino”) oltre a dei “copribracci” anteriori, quei gusci di alluminio sagomato che
servivano per migliorare l’aerodinamica e che carenavano i triangoli di sospensione
anteriore, benchè le prestazioni dell’auto non li rendessero proprio necessari (la piccola
arrivava a toccare al massimo i 180 Km/h, niente male per una 1100); ma quella “chicca” fa capire l’impegno e la classe di quel che in Cisitalia doveva essere una “Entry Level”: lunga 3 metri con passo di 2,01 mt., con quelle fattezze e quel motore doveva essere la base per partecipare dappertutto ed in qualunque classe minore.
Certo, la prima serie fu oggetto di diverse modifiche per superare alcune “grane” ma ci
stava anche questo in un progetto nuovo: ci sono repertori fotografici di “D46” impegnate in diversi circuiti europei (Francia, Germania, Olanda, Svizzera) e persino extraeuropei
(Australia); questo significa che il lavoro commerciale al solito straordinario di Piero Dusio
aveva fatto centro.
Corso Peschiera nel 1945/1946 doveva essere una sorta di cattedrale del deserto: appena
ristrutturato il capannone industriale (ma il nome “capannone” non è degno di un vero e
proprio gioiello architettonico del tempo) i dintorni dello stesso erano un intreccio di viuzze
e stradine dimesse in terra e basolato, contornate da giardini e siepi; un silenzio surreale
circondava forse quel quartiere poco distante dalle cioccolaterie e dai Bar frequentati dagli
scampoli di società nobile e ricca superstite dalla Guerra.

Nulla di tutto questo panorama si poteva vedere nella tarda mattina di un giorno di Sabato di Marzo del 1946: il sole tiepido e appena accennato nella avvolgente nebbia della capitale
sabauda faceva da palcoscenico per un quadretto piovuto su quelle strade da chissà quale
pianeta: dietro ed a lato dello stabilimento “Beltramo/Cisitalia” con file di biciclette
allineate per la vendita, un uomo distinto vestito con un lungo cappotto (Piero Dusio)
osserva in silenzio e trepidante curiosità il proprio Dream Team, un gruppo di persone che
all’epoca ogni Marchio di Costruttore di auto avrebbe voluto in casa.
E’ Sabato e Dante Giacosa può liberamente essere là, l’ufficio Scuola alla Duca degli
Abruzzi è chiusa nel fine settimana; lo immaginiamo distinto, con il camice di lavoro che
copre la giacca e la immancabile cravatta mentre con una tavoletta portablocco segna e
spunta tutto quello che si rende necessario controllare.
Forse c’è anche Rocco Motto, il mago della lavorazione dei metalli: la sua officina di Via
Bardonecchia ha dato non poco aiuto alla lavorazione ed alla consulenza di supporto per le
forme e le tecniche di saldatura e sagomatura di un curioso traliccio di tubi, parzialmente
svestito ma che si sviluppa a forma di curioso sigaro.
Davanti si vede un piccolo motore di base Fiat, sul retro una sorta di pancia di ape, una coda fatta apposta per terminare subito e denotare una caratteristica particolare, quella di avere il pilota seduto sulla verticale dell’asse posteriore; per questo il vano motore così lungo sembrerebbe appartenere ad una monoposto molto più lunga dei poco più di tre metri sviluppati dal prototipo.
E nella tarda mattina di quel giorno, a Corso Peschiera non può mancare lui: Piero Taruffi.
Partito da Via Crescenzio, da casa sua a Roma, l’Ingegnere assolve al compito di
collaudatore e consulente tecnico e sportivo di Cisitalia, nonostante tra le mille cose che lo
coinvolgono abbia in corso lo studio ed il deposito del brevetto del “Tarf”, il bisiluro dei
Record.
Indossa la sua fida tuta di cotone rinforzato, ha con sé gli occhiali studiati e realizzati da lui, ed il casco a sua volta realizzato secondo le specifiche personali di quel figlio del vento.
Piero ha circa quarant’anni ma lo attendono Stagioni di nuovi trionfi e nuova gloria in quel
Dopoguerra. Rimane e diventa sempre più efficace in veste congiunta di Pilota, Ingegnere,
Artigiano, e soprattutto perfetto visionario del mondo che verrà: la Cisitalia “D46” che in
quel momento a Corso Peschiera muove i primi passi è una creatura sua.
Piero si accomoda al volante, un consulto con Giacosa, un segnale ai meccanici presenti
intorno alla monoposto. Il motore si avvia e nonostante i soli 1100 cc. di quel quattro
cilindri di origine Fiat l’aria circostante viene riempita dal rombo prepotente e sanguigno e
dell’odore pungente dell’alcool e dell’olio di ricino.
La “D46” viene sapientemente riscaldata, e poi Piero abbassa gli occhiali da corsa. La
levetta del cambio sotto il volante va verso la “prima”. Fumando un poco, le sottili e grandi
ruote posteriori fanno da subito scodare la piccola Cisitalia.
Il sogno ha inizio: da Luglio 1946 arrivano ordini – e liquidità – per complessive 30 “D46”,
mentre si sta preparando l’esordio ufficiale della piccola, al Circuito del Valentino.

Siamo alla vigilia del 3 Settembre 1946, la “Coppa Brezzi” attende un vero e proprio
“vernissage” che passerà alla storia. Comunque sia, la piccola creatura di Taruffi e Dusio ha
già svolto il suo compito.
Quel giorno del Valentino il marchio Cisitalia entra nella epopea del Motorsport, ma da quel
giorno inizia un cambiamento che la porterà alla morte: per questo insisto a dire che l’unica
vera “Cisitalia” nel bene è stata la “D46”; che, se non lo sapete, è stata anche quella capace di esaudire il sogno di Dusio di arrivare in F.1.
Eh, già: l’unica iscrizione dei Dusio (Piero e Carlo) in una Gara di Formula Uno avviene a
Monza, nel 1952: i due portano in prova una “D46” particolarmente stravolta per poter
ospitare un motore da 2.000 cc. di derivazione marina.
Un piccolo Frankenstein che purtroppo non fa molta strada; rotture continue fanno desistere la improvvisata Squadra di famiglia dal partecipare alla Gara, e al Sabato pomeriggio il bilico anonimo contenente le “D46” e le parti di ricambio meccaniche si congeda dal parcheggio del circuito brianzolo.
Dopo aver dilapidato tutte le sue risorse finanziarie con quel satanasso della “360 Gran
Prix” Porsche Cisitalia, Dusio si era ritrovato a poter contare ancora una volta, come
sempre, sulla sua vecchia monoposto tuttofare. Ironia della sorte, maliziosa ironia: non mi
meraviglierei se nell’elenco partecipanti alla Gara di Monza la “D46” fosse tra le più
anziane o la più anziana iscritta, fatto sta che anagraficamente il progetto originario aveva a quella data quasi sette anni…Ma quello che conta è che forse (lascio il beneficio del
dubbio) la piccola e proletaria D46 è una delle poche, se non l’unica, monoposto ad aver
corso in più di un Continente, in più di una Nazione, e con pochi aggiornamenti aver corso
dalle Categorie minori di ogni disciplina (strada, montagna, pista) fino alla Formula Uno;
godendosi anche il primato di essere la prima monoposto del Dopoguerra ad aver corso una
Gara Monomarca fuori dall’Europa… Se Vi pare poco…
Ma torniamo al Luglio 1946, Corso Peschiera, Stabilimento Cisitalia: si lavora a ritmo
forzato per produrre le due serie di “D46” da completare, una serie per la ormai prossima
“Coppa Brezzi” ed una serie da commercializzare in Italia ed in Europa a Piloti Privati.
Dusio ha compiuto due capolavori: ha creato dal nulla uno Staff di tecnici da urlo, e con la
vendita curata personalmente di ben 22 “D46” su 30 totali previste ha un gruzzoletto di
ordinativi che si somma all’enorme patrimonio personale con cui il magnate torinese
sostiene benissimo le esigenze di cassa del Marchio.
O meglio, lo sosterrebbe se evitasse passi più lunghi della gamba. Invece….
“Ingegner Giacosa” – esclama Dusio incrociando il tecnico in Sede – “dalla D46
riuscirebbe a ricavare una biposto a motore 1100 per la Mille Miglia del prossimo anno?”
“Si, certo” – risponde Giacosa – “Suggerisco ovviamente una Barchetta, ma sarebbe più
logico attendere il 1948; siamo già affannati con gli ordini e lo sviluppo della monoposto
per affrontare la Mille Miglia in quasi dieci mesi”

“No, non se ne parla: la MM 1947 è la prima dalla fine della Guerra, ed io tra due anni
voglio già arrivare alla produzione di serie di quella Biposto”.
“Commendatore, ma sta scherzando? Sinora la Cisitalia è un gruppo di uomini che
lavorano a mano, con pezzi meccanici esterni e persino molte lavorazioni di finitura le
dobbiamo effettuare al di fuori: non vede la continua movimentazione del bilico con le
carcasse incomplete che entra ed esce? La produzione in serie è una mattanza, senza
organizzazione”.
“Giacosa, lasci a me i problemi commerciali e quelli dell’organizzazione: Le chiedo di
studiare la Biposto, aiutarmi a realizzarla in serie. Se accetta, Le chiedo anche di lasciare
Fiat ed entrare in esclusiva con me. Stipendio e trattamento superiore, e diventeremo un
Marchio concorrente della Lancia. E si ricordi, che entro tre anni voglio approntare la
Formula Uno”.
“Dusio, mi dispiace: per me Lei è un capo ed un amico; ma questa Sua idea è folle, se
crede di poterla concretizzare da solo, in poco tempo e con obbiettivi così impegnativi.
Senza un Socio forte e strutturato le probabilità di fallimento sono altissime, e glielo dico
dopo la mia esperienza con la SPA, che era molto più forte di noi ora.
Ma Le dico anche da subito che se rifiuta il mio monito dovrò mio malgrado separarmi da
Cisitalia. Non mi metta in condizione di farlo.”
Ecco, in rapida successione il botta e risposta che ovviamente durò due mesi, nella realtà.
Ma il senso è questo: Dusio aveva appena abbozzato il progetto – ottimo – della “D46” al
quale tutti erano partecipi entusiasti, perché davvero una piccola monoposto come la
Cisitalia non esisteva (e al punto che le successive Formula Junior prenderanno
praticamente spunto da Lei); ma nel frattempo il Patron aveva già alzato l’asticella con
l’idea della Biposto.
Ma stava accadendo qualcosa, dentro Cisitalia, che avrebbe cambiato per sempre il suo
destino: Dusio aveva preso contatto con un fotografo e cronista di Motorsport, Corrado
Millanta, a sua volta già ottimo amico di Tazio Nuvolari.
I due, sottilmente, stavano stuzzicando Dusio su un progetto faraonico, quello di
presentare una futura “F.1” (o meglio “Grand Prix”) a marchio Cisitalia per il nuovo
Campionato in partenza per il 1950.
Il senso logico? Lo sport avrebbe fatto da traino alla vendita di auto private, e dunque
nell’approccio sbrigativo del Patron questo significava velocizzare al massimo la vendita di
nuovi modelli anche per fare cassa per il progetto Grand Prix.
insomma, un cane che stava iniziando a mordersi la coda.

In quella estate 1946 di continui viaggi e contatti all’estero, a volte anche insieme a Taruffi
e Nuvolari nel ruolo di “Testimonial” per la vendita della “D46”, il contatto tra Dusio e
Millanta aveva scatenato dentro al Magnate una reazione a catena: ma quale “D46”, ma
quali categorie minori !!!!
La “ciccia” era tutta dentro due soli eventi: Mille Miglia e Grand Prix, il problema era
che conseguire entrambi i risultati richiedeva due approcci opposti, e che ovviamente la
Formula “Grand Prix” apriva a Dusio la suggestione di quei passati duelli epici tra Frecce
d’Argento e Bolidi Rossi.
Se a soffiare su questa suggestione erano però un sognatore come Millanta (abbacinato
forse dalla promessa di Dusio di diventare futuro D.S. dell’operazione “Grand Prix”) e il
povero Nivola (ormai al declino e ammaliato dal desiderio di sedere di nuovo su una
“Grand Prix” che nessun’altra Squadra gli avrebbe mai concesso); dall’altro lato resisteva
il pragmatismo di Taruffi, che al massimo proponeva un suo Ingegnere di fiducia per una
sorta di “Piano di fattibilità” prima di buttare al vento soldi ed impegno.
E proprio Taruffi insieme a Giacosa mostra il lato forte e giustamente orgoglioso del suo
carattere e della sua etica: si dimette da Consulente e supervisore sportivo e tecnico della
Cisitalia, mantenendo – più per umana solidarietà con Dusio che per interesse personale – la disponibilità a svolgere Collaudi, perizie ed eventualmente a correre con le auto del Marchio dello Stambecco.
Ma mentre Giacosa stava già preparando con Fiat la lettera di dimissioni dall’incarico in
Cisitalia – a partire da Novembre – lasciando il timone al solo Savonuzzi che rimase tuttavia
solo un altro anno (lasciò definitivamente agli inizi del 1948), dentro Cisitalia stava
scatenandosi la tempesta perfetta: un uomo lasciato progressivamente solo (Dusio) per
effetto della sua anarchica testardaggine ma del tutto digiuno di tecnica automobilistica,
stava per diventare preda di un manipolo – non saprei quanto consapevole o meno – di
forsennati: gli uomini della “Porsche”.
Tutto questo ovviamente non era neppure immaginabile alla mente di Giacosa, in quel
Luglio 1946: l’integerrimo Ingegnere sperava fino all’ultimo in un colpo di saggezza del
suo Patron, mentre preparava la sfida della “Coppa Brezzi”.
Ma già alla vigilia di quel mese di Settembre, Dante Giacosa e forse lo stesso Taruffi
avrebbero fatto una fugace conoscenza con un altro nome leggendario su quattro ruote:
Carlo Abarth.
Si sono accavallate diverse leggende su quel famoso “primo contatto” tra Ferry Porsche e
Piero Dusio: chi lo data prima del famoso “riscatto” pagato dal piemontese, chi dopo; chi
localizza l’incontro in Austria, chi invece racconta un poco probabile arrivo in treno di
Ferry e della sorella alla Stazione di Bolzano, dove Dusio avrebbe praticamente raccolto in
auto due moribondi poveri ed affamati.
La verità? Semplice: quando Dusio incontra Ferry Porsche quest’ultimo ha da poco scontato
i domiciliari per la sua collaborazione con i Nazisti; e dunque immaginare un profilo del genere superare il confine della Nazione di custodia per arrivare, da accusato
collaborazionista, solo soletto in treno dentro un Paese controllato da Partigiani ed
antifascisti mi pare poco veritiero.
Ma quello che colpisce di più l’attenzione è che quando Dusio incontra Porsche, il 20
Dicembre del 1946, è già privo dei suoi uomini più importanti: Dante Giacosa e Taruffi.
Ferry Porsche arriverà in Italia, sotto contratto con Cisitalia, solo a fine inverno del 1947 e
per sole due settimane, per poi far ritorno alla sua “Factory austriaca”.
Ma il punto non è questo, e non è neppure la famosa questione del “riscatto” per la
liberazione del patriarca Ferdinand dal carcere di Digione.
No, il punto è l’ossessione di Dusio per la F.1 affidata proprio allo Studio Porsche contro
l’opinione allineata della dirigenza tecnica ufficiale di Cisitalia: contrari Taruffi, Giacosa
(ormai ascoltato da “ex”) e Savonuzzi, favorevoli solo Millanta e Nuvolari.
Per questo la Cisitalia finisce per diventare, dalla fine del 1947, una filiale italiana della“Dr.
Ing. h. c. F. Porsche Gesellschaft mit beschränkter Haftung, Konstruktion und Beratung
für Motoren- und Fahrzeugbau” che dal 1944 non occupa più gli storici sette piani della
palazzina “Ulrichsbau” disegnata da Philipp Jakob Manz in Kronenstrasse 24 a Stoccarda.
Con la Germania bombardata dagli Alleati tutto era stato trasferito tra una ex segheria
acquistata nell’austriaca Gmund ed il distretto di Gries an der Lieder; a far triangolo con la
nuova residenza dei Porsche nel quartiere di Schuttgut a Zell am See.
Ma Ferdinand Porsche è in prigione a Digione dal 1945 (fino ad Agosto 1947) e lo stesso
figlio Ferry affronta carcere ed arresti domiciliari nell’Hotel Sommerberg a Bad
Rippoldsau,: così nel frattempo a gestire l’azienda sono Louise Piech (sorella di Ferry
Porsche) e Karl Rabe che ben prima della rinascita (il 24 Aprile del 1947) della “Porsche
Konstruktionen GmbH” a Gmund riescono ad ottenere già ad Agosto 1946 la loro prima
“maxi commessa”: un pre-ordine di diverse future Porsche “356” (vendute praticamente
“sulla carta”) da importare in Svizzera, committenti tali Signori Rupprecht von Senger e
Bernhard Blank di Zurigo che verseranno per questo circa 100.000 Franchi Svizzeri.
Nuvolari e Millanta favoriscono il contatto tra Dusio e la Porsche attraverso un dirigente
storico di questa: Rudolph Hruska.
Ma questi (Ingegnere, già collaboratore di Ferdinand Porsche, dal 1945 a Brescia per il
progetto di un trattore con la O.M. e rimasto in Italia per l’ingresso alleato in Germania) è
fondamentalmente un uomo piuttosto in difficoltà nel muoversi “liberamente” vista ancora
l’aria che tira, per cui decide di “nominare” come delegato e factotum un ragazzo
conosciuto a Bolzano ed ancora del tutto sconosciuto al mondo: Karl Abarth, ex dipendente
e corridore della “Motor Thun” di Traischkirchen, arrivato a Merano come rappresentante
di tessuti e biciclette, e per questo a conoscenza di Dusio e del suo potenziale economico.

Per questo, vedi il caso, Abarth diventa Rappresentante dello Studio Porsche dal 30
Settembre 1946, dopo che appunto già Karl frequentava e conosceva Dusio.
Comunque, il 20 Dicembre 1946 finalmente Dusio e Millanta incontrano a Kitzbuhel Ferry
Porsche ed il 2 Febbraio 1947 a Torino la Cisitalia e l’Ingegner Hruska firmano un
accordo formale di incarico con una serie di progetti che Vi elenco in base alla codificazione
sequenziale (Typ List) data dalla Porsche: un vecchio Trattore Diesel (Typ 323), una
“Water Turbine” per utilizzi industriali; la Formula Uno “Typ 360 Grand Prix” (che fin
troppo chiaramente deriva in modo inquietante dalla mai svelata Auto Union “Typ E” ed
alla “Sockol 650”) ed infine la “Sport Coupè Typ 370”.
Di sicuro tutto il lavoro commissionato alla Porsche impegna la Cisitalia per valori
economici mostruosi dell’epoca e con un travaso di manodopera che in qualche modo
distrae dalla produzione in corso: le “202” già di per sé complesse e lunghe da realizzare
obbligano a ritardi nelle consegne ed a preordini che rallentano anche il Cashflow della
Casa; per non parlare della “D46” che continua in qualche modo a fare da Bancomat grazie
al favore presso Piloti di campo internazionale benchè dalla prima serie in poi si manifesti il
vero tallone di Achille nella Gamma Cisitalia: la dotazione motoristica.
Il 1100 quattro cilindri Fiat è arrivato al capolinea dello sviluppo e delle prestazioni. E se 60
Cv sono ormai pochi per una monoposto da Categoria minore, figurarsi nella configurazione
della “202” che ha prezzi e aspirazioni da vettura del rango e della categoria delle Maserati,
delle Ferrari, delle più prestanti sportive inglesi da almeno 2.500 cc.
La totale incompetenza di Dusio in tema di cultura automobilistica e di capacità di leggere
anche il mercato auto stradale e non solo sportivo porta la Gamma della Cisitalia ad
impantanarsi e ad annullare ogni supporto in termini di liquidità da margini di vendita.
Dopo la Coppa Brezzi la “D46” è attesa da due soli eventi “vernissage” prima del
capitombolo Cisitalia quando Erwin Komenda scriverà in un Telex al Grande Capo, poco
prima della bancarotta di Dusio, un laconico e glaciale : “siamo in stallo, il Cliente ha
esaurito i fondi”.
Tutti tornarono alla Factory Porsche lasciando la Cisitalia in una procedura ingiuntiva
avviata dalle maestranze che volevano essere pagate e in un decreto di Amministrazione
controllata del Tribunale di Torino nel 1949.
Tutti i collaboratori Porsche lasciarono l’Italia tranne due: Hruska entrò nei favori di
Finmeccanica, ed Abarth iniziò la sua attività dal magazzino Cisitalia liquidato all’Asta.
In questo percorso Abarth stesso comincia a distinguere il suo segno inconfondibile sulla
“D46” portando prima una serie di piccoli ritocchi sulla serie evolutiva successiva
(denominata D47) per poi chiudere la famiglia con una ultima versione da 1200 cc, molto
muscolosa ed aggressiva, che si può chiamare in forma “semi-ufficiale” D48.

Così, con la fine del sogno Cisitalia, si consuma all’orizzonte l’esperienza del “piccolo
genio” che tuttavia, per anni a venire, resterà protagonista in tante parti del mondo. La
“D46”, il piccolo genio di Piero Taruffi.
Riccardo Bellumori

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