Quale virus ha ucciso l’auto americana? Storia di un declino evitabile

C’era una volta l’auto americana. 

C’era una volta l’America che si specchiava nelle sue industrie. C’era Detroit, c’era Indianapolis. C’era il V8 “big Block” e le Majorettes in Pista.

Soprattutto c’era un desiderio in tutto il mondo di quei traghetti su ruote che riflettevano con cromature e copriradiatori panoramici il carattere e l’aspirazione nazionale da parte degli USA di essere percepiti come il continente Leader del mondo.

C’era tutto questo. Un poco artefatto e ostentato, ma c’era. Oggi non c’è più una gran parte di quello che ho elencato. 

Ma il carattere e l’aspirazione nazionale da parte degli USA di essere percepiti come la Leader del mondo, quella purtroppo va e viene come uno sciame sismico; dipende spesso dal personaggio di turno che va a sedere nelle poltrone intarsiate dello Studio Ovale alla Casa Bianca.

1981, Ronald Reagan non fa neppure in tempo a promulgare una soglia limite legale – in tutta la Nazione –  in numero di galloni di benzina consumata per 100 miglia, che un folle pensa bene di sparare da distanza ravvicinata. Il Presidente è vivo per miracolo ed una possibile guerra con l’U.R.S.S. è scongiurata per il rotto della cuffia.

Ma la Nazione dell’ex attore Ronald è ancora leader mondiale in tutto quel che riguarda il mondo Automotive a quattro ruote: General Motors e Ford sono i primi due incontrastati Gruppi Costruttori del Mondo per volumi di produzione, le Società di Supply Chain e di Project Management sono negli USA e il numero di sperimentazioni e brevetti che arrivano da oltreoceano è spaventoso, anche perché se sul versante elettronica gli USA pagano qualcosa a Giappone ed Europa, sul versante materiali e lavorazioni speciali non c’è confronto.

2011, Obama siede da leader Democratico (Reagan era repubblicano) nella Sala Ovale. Ma di Bianco intorno a lui non c’è solo la Casa. Va “in bianco” anche l’Industria yankee.

Il comparto Automotive statunitense è un colabrodo. In meno di tre anni le “Big Three” sono ormai diventate “Medium Two”: Chrysler è confluita nel Gruppo Fiat, GM sta andando a rotoli e nonostante il prestito federale deve sottoporre ad eutanasia ben cinque dei suoi Marchi (Daewoo in effetti “muore” ma diventa Chevrolet in Europa); Ford per evitare il prestito governativo perde di colpo quattro (Volvo, Jaguar, Land Rover ceduti e Mercury cessata) dei sette Marchi che fino a dodici mesi prima costituivano il suo Regno, oltre ovviamente a piallare una infinità di posti e di Stabilimenti.

In tutto questo la arguzia del presidente più “smart” che gli Usa abbiano mai conosciuto fino ad allora pone al suo Paese ed al mondo un obbiettivo irreale di diffusione di nuove auto elettriche in pochi anni. Un obbiettivo che implica la fine inesorabile di una epopea.

 

2021, quaranta anni dopo uno dei periodi più rosei del Dopoguerra per il mercato Auto USA: Trump fa della prosopopea nazionalista un cavallo di battaglia ad un passo dalla scadenza del mandato. Il Covid ed il Lockdown hanno sconvolto previsioni e strategie, e quello che Donald si trova davanti ormai – nonostante il copione scenografico da “America ar First” – è un enorme tricheco spiaggiato. 

La “sua” industria nazionale è oramai riflessa più nell’innovativo ma apolide Elon Musk di Tesla che non nei simulacri tradizionali di Detroit.

La realtà quaranta anni dopo Reagan è che il mercato USA produce meno pezzi della stessa UE in crisi e soprattutto non ne produce molti di più del suo stesso mercato interno anni ’80. La Cina produce quasi tre volte il volume federale, e soprattutto ha vinto la sfida a distanza sull’elettrico. E non solo quella.

L’Ironia di Soichiro Honda

Il presidentissimo della casa di Tokyo si tolse bei sassolini dalla scarpa, in una conferenza Stampa a Detroit nel 1970 per la presentazioni della nuova “Civic”: incalzato dai giornalisti sul rispetto delle nuove norme antiemissione varate poco prima dal Governo federale, decisamente più coercitive ed impegnative delle precedenti, il divino Presidente si divertì ad esprimere una freddura: “Quando il Governo federale cambia le norme antiemissione, la Honda in America assume cento nuovi Ingegneri, mentre la General Motors assume cento nuovi Avvocati”.

In questa frase Soichiro aveva riassunto un intero campionario di verità nascoste e di luoghi comuni da sfatare.

Nel voler colpire l’importazione di auto straniere con inasprimenti dei limiti di emissione, per costringere i Marchi esteri ad aggiornarsi o ad abbandonare il mercato, il Governo USA in realtà finiva per imbrigliare i propri stessi Marchi, poiché in qualche modo i Brand stranieri si mettevano in regola ma chi soffriva l’adeguamento era soprattutto l’industria nazionale che faticava ad operare modifiche senza ritoccare in alto i Listini.

Insomma, si parla spesso della nazione americana come della Patria del Liberismo e del rispetto del mercato. La storia concreta direbbe tutt’altro, con un Congresso ed una lobby dei Costruttori USA pronta a fare ogni tipo di muro per evitare una concorrenza estera che da metà anni Settanta fece piovere da Germania, Italia, Svezia e soprattutto Giappone un esercito di auto piccole, tecnologiche e soprattutto emozionanti: BMW, Mercedes, Saab, Volvo divennero in poco tempo Marchi che sull’export verso gli USA componevano una fetta importante di fatturato. Ma dagli anni Settanta l’incubo per le Case di Detroit diventò il Giappone. 

A nulla valsero le norme “anti-intrusione” (appendici di sicurezza passiva, fanaleria, altezza minima) e anti emissione: ad ogni step peggiorativo i giapponesi rispondevano con modelli sempre più aggiornati e di qualità. 

La risposta dei Costruttori USA (soprattutto di Chrysler e di American Motor Corp.) fu disastrosa: la Gamma “piccola” delle auto che fu pensata anche per contrastare la crisi energetica dei primi anni Settanta non riscontrò alcun favore di pubblico e non sortì alcun effetto sui risultati di export.

La qualità costruttiva complessiva risultò poco soddisfacente, ma più in specifico va detto che la viabilità e la morfologia del continente USA erano (e sono tuttora) talmente ostili da rendere necessario l’oversizing di telai, motorizzazioni e sospensioni per sopportare le condizioni climatiche opposte, i fondi stradali devastati, le percorrenze infinite, ma non solo: la rete di assistenza e postvendita americana (con le sue stazioni di servizio e le officine) era impreparata ad architetture meccaniche ed a intervalli di manutenzione più inclini alle abitudini europee e per i quali la struttura media delle Reti a stelle e strisce era inadeguata.

L’epopea “Small”, l’inizio della crisi dell’auto a stelle e strisce

La parentesi delle auto “small sized” tentate dai Costruttori statunitensi da metà anni Settanta come detto fu determinante per lo stato di precarietà endemica che colpì il Gruppo Chrysler (pur nonostante l’arrivo di Lee Iacocca da Ford) e che rese questo marchio il più precario tra le “big Three” di Detroit; ma fu uno degli aspetti che portò alla scomparsa del quarto Gruppo rimasto in campo (American Motor Corporation) che proprio quaranta anni fa in sostanza chiuse i battenti con la cessione da Renault a Chrysler.

La crisi del mondo auto USA è in effetti un “compagno di viaggio” di questo settore industriale da almeno 35 anni, perlomeno a livello di immagine e di iconografia.

Dopo la ultima “controffensiva” di Ford (Mustang Turbo 2.100 cc.) Dodge (2,2 Turbo), Chevrolet (Corvette) che proponeva un modello più “europeo” di auto sportiva, si ricordano del mondo USA soprattutto gli strafalcioni: le famigerate Chrysler Lamborghini, la prima “sventagliata” di proposte elettriche (la Chrysler ETV-1 ed ETV-2, la ElectrekUncar, le Globe Union Endura e Maxima, la CentennialElectric) che hanno chiuso in forma imbarazzante il decennio ’80; al quale è seguita, ad inizio anni ’90 quella macchietta satirica dell’auto BEV moderna (la General Motors EV-1) di cui la stessa Big Company di Detroit preferirebbe non sollevare alcun ricordo per il flop epocale di cui fu protagonista.

Anni Novanta: il virus “finanziario” approda in Europa

Stiamo parlando del “modello Auto” americano, descrivendone il declino. Tuttavia dobbiamo ammettere che un modello americano in campo automotive è esistito ed ha influenzato il mondo occidentale ed europeo. In effetti è più difficile delineare un modello univoco di auto europea: prima del 1992 i modelli a confronto erano quelli provenienti da Gran Bretagna, Italia, Francia, Svezia, Germania.

Dopo l’unificazione europea il modello “istituzionale” diventa quello tedesco delle auto Premium e del motore Diesel: se questo obbiettivo a lungo termine risulta fatale al Vecchio Continente in termini di impoverimento della consistenza industriale di Marchi e di prodotto europeo, nel breve termine porta ad una crescita dei Listini e della dotazione media delle auto, il cui acquisto vede progressivamente crescere due modalità molto più diffuse oltreoceano: il finanziamento retail e la prima diffusione di contratti di Noleggio anche per il target “mini Flotte”; una tipologia di contratti finanziari originaria proprio della cultura anglosassone che negli USA aveva raggiunto volumi e diffusione di massa. 

In America il sistema finanziario Retail “classico” fu rivoluzionato da tal Eustace Wolfington: da lui parte quel metodo di vendita con “richiamo programmato”, che successivamente Ford acquisisce introducendo dal 1990 – con il supporto di “Half-a-Car” prima in Gran Bretagna, poi in Italia e nel resto d’Europa il più moderno e diffuso sistema di acquisto con finanziamento, dove l’importo residuale finale corrisponde al valore futuro concordato anticipatamente in caso di riacquisto da parte del Rivenditore.

Insomma, arriva dagli USA un sistema finanziario che, accompagnato dalla crescita del noleggio – riduce sempre di più la schiera dei “contantisti” ma accresce un monte di credito erogato che in pochi anni diventa davvero enorme, e cominciano i primi problemi di criticità. In America, forse poco prima che scoppi in Europa, la bolla dei Mutui Subprime scopre nel credito immobiliare un buco che – presumibilmente – nel comparto auto rischiava di diventare una voragine. 

Fatto sta che arriviamo al 2007/2008: la Cina e l’India diventano protagonisti importanti del mondo Auto, gli USA si leccano le ferite e da quel momento per l’Aquila urlante (Screamin’eagle) inizia un periodo di torpore e di disorientamento.

Che arriva fino ai giorni nostri, nonostante il rinnovato impegno nazionalista e “sciovinista” (tuttavia molto di facciata) di Donald Trump: neppure il periodo di mandato del “tycoon” repubblicano tra il 2016 ed il 2021 riesce a risollevare più di tanto la situazione, e neppure la manifesta avversione che Trump dimostra verso la presunta “rivoluzione elettrica”.

Di fatto l’America rimane una ex potenza automobilistica, intorno alla quale si moltiplicano i piani di investimento di Costruttori nazionali, europei, giapponesi e cinesi verso Messico, Canada, Sudamerica. 

E “le stelle stanno a guardare” come avrebbe detto il conduttore di un celebre programma di oroscopi alla radio. Sono le stelle della bandiera USA, sono le ex stelle industriali yankee.

Prive di sogni, prive di attese e forse prive al giorno d’oggi di un motivo per dimostrare di essere ancora le regine del mondo, le Case Auto USA continuano a vivere in un limbo. Ed è un vero peccato, perché la latitanza di un protagonista occidentale di rango come l’America nello scontro dimensionale con Cina e India lascia una approssimaticaEuropa a “tenere la posizione”. Non si sa per quanto.

Riccardo Bellumori.

 

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