Morte dell’Auto europea: come in 30 anni la UE ha ucciso un secolo di storia

C’era una volta l’Auto europea

Quella che, a metà di un ideale ponte tra l’esagerazione opulenta della produzione statunitense – nazione che aveva fatto della motorizzazione il manifesto di superiorità e differenza sociale rispetto al mondo in ricostruzione post-bellica – e la originaria frugalità del modello nipponico (che invece si poneva come testa di ponte per il dominio commerciale dei giapponesi sui mercati mondiali), si distingueva per biodiversità, equilibrio, tecnologia e utilità sociale, in quanto destinata a superare le distanze territoriali, nazionaliste ed ideologiche che avevano portato il Vecchio Continente agli orrori della Guerra. 

L’auto europea, in primo colpo d’occhio, capace di distinguersi per la fantasia degli Stilisti e la capacità artigianale dei Carrozzieri; quella che passando dall’evoluzione continua delle carrozze a cavallo aveva saputo vestire i cavalli d’acciaio dei grandi motoristi. 

Avete provato a mettere in fila TUTTI i modelli che l’Europa estesa (inclusi quei Paesi dell’Est come la Cecoslovacchia, mercato prestigioso prima di Yalta) ha prodotto dal Dopoguerra fino all’avvio di Maastricht in termini di prodotti di serie e Concept? 

Probabilmente ne ricaveremmo un anello continuo capace di “cintare” tutto l’Equatore.

Ovviamente c’è anche in questo l’Europa dei brevetti e della creatività intellettuale, una infinità di soluzioni attraverso i quali si è formata l’auto moderna; e senza dimenticare la spinta che al Vecchio Continente ha dato l’industria americana. 

Che, tuttavia, è nata per effetto dell’apporto dei costruttori francesi ed inglesi che per primi hanno insediato i loro Stabilimenti: simboli come la Corvette (Monsier Chevrolet, francese) o la Jeep (originata della inglese Overland acquisita dall’americano Wyllis; e derivata dal progetto dell’inglese Bantam) od altre icònestatunitense hanno un legame simbolico con la vecchia Europa. Persino in Giappone la prima auto prodotta secondo un protocollo industriale e non amanuense fu una Mitsubishi costruita su licenza della torinese Fiat.

Ed a conti fatti perlomeno il primo mezzo secolo di motorizzazione di massa globale post bellica è stato guidato dalla produzione europea sia in volumi (considerata la produzione continentale, quella dislocata dei Marchi europei e le produzioni su licenza).

L’Europa ha guidato la motorizzazione di massa post bellica

Tutto questo, ne sono consapevole, non è una nozione sconosciuta ai più: ma è stata “congelata” e relegata a simbolo devitalizzato di una fase storica destinata a lasciare strada al “nuovo che avanza”. 

Concetto abusato e abbastanza violentato in Europa per segnalare l’esigenza, sollevata da una sparuta rappresentanza di “nuovisti”, di cambiare i soliti vecchi schemi di qualcosa che per il solo fatto di essere pre-esistente deve per forza essere già superato, nocivo, inefficace.

A nulla vale, per questi fac simile degli arredatori di interni falliti stile anni Settanta, che al grido di “impiallicciato e monocottura è meglio” hanno svuotato gli appartamenti dal mobilio di legno massello arte povera e dalle mattonelle in cotto antico dei nostri antenati. Me ne facevo una ragione nella cultura americana, tutta plastica, nylon e riproduzione di manifattura europea per la mancanza di pedigree e di tradizione artigianale autoctona. Ma non in Europa che tuttavia, grazie soprattutto agli Inglesi ed agli italiani (un po’ meno ai francesi, troppo istrionici e discontinui) hanno tenuto nei binari della tradizione e dei canoni esclusivi continentali la produzione Automotive tra gli anni Sessanta e Ottanta.

Certo, non che la produzione classica endotermica non fosse esente da controindicazioni, valori negativi e problemi: nessuno mai ha ritenuto il motore a combustione un bene della società: ma all’alba del nuovo millennio l’Occidente l’endotermico non aveva mai ancora smesso di essere perfezionato ed aggiornato, grazie ad esperienze arrivate da oltreoceano: nel dibattito ecologista nessun esperto cosiddetto ha mai davvero analizzato i risultati straordinari che il Brasile, lungo mezzo secolo di programmazione ed indirizzo, ha ottenuto in tema di riduzione della CO2 grazie alle alimentazioni alternative (etanolo).

C’era una volta l’auto europea, dunque. 

Quella che Luis Renault pensò adatta solo ai ricchi, mentre Andrè Citroen voleva per il popolo esteso, cosicchè per farlo si dovette convertire allo chassis monoscocca di brevetto americano. L’auto europea che nel momento di massima maturità “positiva” esibì il suo repertorio leggendario di concetti: italiano, francese, inglese, tedesco, svedese, olandese che qualificavano il valore della biodiversità europea contro il modello a senso unico degli USA ed il modello eretico pensato dai giapponesi per prendere il meglio di ogni altro continente concorrente e condensarlo in un format adatto ad essere accolto nei mercati esteri.

Soichiro Honda negli anni Settanta ironizzò sull’organizzazione del mercato e della politica legislativa americana, sospettata di complicare le normative antiemissione solo quando la concorrenza estera si faceva pesante: erano gli anni in cui la politica europea sull’auto non aveva molto bisogno dei contingentamenti e dei dazi; la forza dell’immagine europea era tale da fare dell’industria continentale un “must” per chiunque cercasse il meglio su quattro ruote.

Non era in alcun modo possibile per l’auto europea fare brutta figura nel mondo, un rischio che sfiorò più volte l’auto americana colpevole suo malgrado di esaltare l’immagine imperialista denunciata dalle contestazioni da inizio anni Sessanta; e mentre i simboli del motore Made in Usa veniva linciato nelle piazze lo sport e la cultura rilanciavano sempre più il modello automobilistico europeo. 

Primo passo: l’Unione Europea abbatte la biodiversità

Una delle caratteristiche vincenti dell’Auto europea era diventata negli anni la capacità di rappresentare il meglio di ogni carattere nazionale dei Paesi Costruttori; resta inteso che l’immagine estera dell’auto europea era spesso sopravvalutata rispetto ad alcune circostanze e periodi nei quali vi furono nel Vecchio Continente situazioni spiacevoli: si va dalla crisi del mercato tedesco post bellico per le sanzioni alleate, alla crisi del modello nazionalizzato inglese, fino agli anni di piombo italiani; tuttavia ad esempio l’escamotage del motore Diesel (invenzione tutta europea anche sulle auto) per contrastare la crisi energetica dimostra come le strategie commerciali vincenti nel Vecchio Continente non mancavano, così come non mancava una rete di relazioni industriali che legava saldamente, nazione per nazione, l’Europa ai confini del Sudamerica, all’Africa, al Commonwealth, e persino in Unione Sovietica prima del 1990.

Fino a quando è durata l’auto europea? Fino a Maastricht, 1993

Dopo di che l’Unione Condominiale europea – a guida del proprietario di Attico e superattico tedesco – ha cominciato ad abbattere la biodiversità che aveva fatto del Vecchio Continente un campione industriale mondiale. 

Via l’artigianato, che costa e impiega troppa poca gente; via i brevetti, quelli sono roba per il mondo giapponese. 

Via la fantasia automobilistica italiana, la classe britannica, la lucida follia francese. Via, soprattutto, una classificazione di mercato che non parlasse tedesco: se nel 1990 era difficile catalogare in Segmenti rigorosi tutti i modelli europei, dalla metà degli anni Novanta non esiste nulla che non fosse posizionabile nelle fasce didascaliche del mercato: Sub B; B; C; D; E; F. 

Tutto il resto era eresia, e il faro guida di riferimento diventò a quel punto la qualità rigorosa, seppure frigida, della Germania di Kohl e del Marco forte, attraverso il quale i Brand ed i protagonisti dell’Aftermarket tedesco iniziarono a fare Shopping e ovviamente Lobbyng nella direzione politica comunitaria.

Come detto, il modello Automotive comunitario “carbon copy” di quello tedesco serve in primo luogo, nelle previsioni delle Istituzioni e del Management Auto europeo a fronteggiare il pericolo della concorrenza giapponese, da inizio anni Novanta. Concorrenza che è aggravata dal continuo insediamento in Gran Bretagna di stabilimenti e snodi logistici. La Gran Bretagna è per i primi anni Novanta ancora una potenza industriale Automotive, con i giapponesi che contrappongono le loro risorse in Yen allo shopping con Marco forte fatto dai Brand tedeschi.

Shopping, e modalità da operatore di mercato dominante, che Commissione ed Unione fanno finta di ignorare, finchè possono e finchè gli USA, come scritto in altro pezzo, non iniziano di per sé a fare un poco le pulci ad una situazione sempre più perniciosa per il mercato a stelle e strisce: la Germania fino ai primi del nuovo Millennio è una potenza automotive in casa, ma lo è anche nel mercato nordamericano e persino – in parte – nell’ex URSS. Ma mentre i tedeschi iniziano a consolidare la propria presenza in Cina, qualcosa lentamente comincia anche a scricchiolare. 

Il Marketing Auto inizia a parlare tedesco, l’Aftermarket inizia a parlare cinese

In tutto questo primo periodo (1993-2003) l’Unione gestisce un paradosso: da un lato favorisce, dietro la pressione politica dei Brand e dell’Aftermarket tedeschi, la diffusione del Diesel come simbolo motoristico emblematico dell’Europa (anche perché nella diffusione del motore a Gasolio all’europea si cela un importante valico contro la concorrenza giapponese, decisamente poco rinomata su questa architettura); dall’altra, più per isterismi francesi ed italiani, attua una bruttissima copia degli schemi legislativi antiemissione in uso presso gli USA: le soglie di riduzione delle emissioni sono standardizzate e calendarizzate all’origine, con le conseguenze disastrose sul valore dell’Usato continentale.

Quello che si sottovaluta, nel medio periodo, diventa però la transumanza dei fattori produttivi e degli insediamenti industriali Automotive dalle Nazioni “ricche” occidentali alle aree meno sviluppate che aprono confini commerciali e politici alle Imprese comunitarie: in pochi anni è già effetto desertificazione, con interi distretti che soprattutto da Italia e Francia traslocano in Est Europa, Nord Africa ma soprattutto Cina. E la libera circolazione progressiva di forze lavoro meno pretenziose all’interno dell’Unione genera una guerra intestina. Grave lacuna per l’Unione della parità e del benessere diffuso. 

L’effetto, in pochi anni, e’ misurabile in un numero considerevole di paradossi che si verificano solo – contemporaneamente – sul mercato europeo :

​-riduzione delle Gamme e dei modelli in commercio nonostante l’aumento di allestimenti e corpi vettura in offerta 

​-scomparsa di diversi Brand e Marchi nonostante la presunta maggiore solidità istituzionale e socioeconomica del mercato comune;

​-trasloco progressivo dei siti produttivi dalle Nazioni più evolute a quelle in via di sviluppo, con un disagio sociale in aumento nei Paesi con più alto benessere;

​-riduzione costante e progressiva dei volumi produttivi di auto e componentistica entro i confini dell’Unione nel mentre si verifica il suo allargamento.

Tutto questo, opera di un “Direttorio” Istituzionale che pur imbellettandosi di federalismo europeo e riempiendosi la bocca dei nomi illustri di Spinelli ed Hamilton, non è in grado altro che di moltiplicare nelle sedi del potere le poltrone a carico di rappresentanti incapaci di fornire un profilo governativo pragmatico e soprattutto stabile. E questo vale non solo per l’Automotive: sarà per questo che l’Europa del tessile diventa preda dei tessuti asiatici, che l’Europa enogastronomica viene invasa dalla contraffazione, che l’Europa agroalimentare occupa sempre meno quote di mercato mondiale.

Fine a Biodiversità ed Utilitaria europea: la UE vuole elettrodomestici su ruote?

La fine della “biodiversità” coincide paradossalmente, in una Unione che avrebbe dovuto difendere i valori dentro casa propria, con l’arrivo da fine anni Novanta dei Gruppi stranieri nel controllo dei Marchi europei e con la scomparsa di alcuni di essi. 

Dal 1993 al 2013, lungo venti anni l’Europa ha perso: Rover ed MG in Gran Bretagna, Innocenti ed Autobianchi in Italia, Saab in Svezia, ma soprattutto ha visto cedere all’estero i diritti di una serie di Marchi storici europei che hanno fatto la storia dell’auto.

Inoltre ha visto traslocare la titolarità di una decina di Brand fuori dei confini comunitari facendo sedere nella poltrona di comando gestori cinesi, indiani, asiatici, mediorientali. Ma non ha mai neppure tentato una strategia di protezione dei suoi Marchi in vita o la tutela dei diritti di quelli storici. Il fatto che buona parte di questi effetti si sia concretizzato dopo la crisi Subprimeamericana non basta a giustificare una gestione strategica imbarazzante dell’automotive da parte delle Istituzioni europee: ed infatti l’industria auto “comunitaria” soggetta a ben quattro “Tsunami” internazionali nel corso di 15 anni (Crack Lehman, bolla immobiliare in Cina, DieselGate, Lockdown e crisi materie prime) si è retta soprattutto sulla forza delle sinergie internazionali dei suoi nuovi proprietari. 

Mentre la produzione di auto nei confini comunitari è crollata progressivamente dai 13 milioni di dieci anni fa a una media da quasi 10 milioni per gli ultimi tre anni rilevabili.

Provvedimenti? Nel mondo ne abbiamo visti a iosa, per l’automotive: dai fondi governativi USA del 2008, all’Helycopter money giapponese nel 2011/2012, al supporto statale della Cina verso i suoi produttori. Ma l’Unione? Cosa ha fatto per sostenere seriamente i suoi sempre meno protagonisti casalinghi? 

Tolta la biodiversità, abbiamo ben spiegato recentemente come l’Europa abbia tolto di mezzo anche un simbolo della motorizzazione popolare: l’Utilitaria di matrice continentale, la “Segmento B” insomma. Il prossimo colpo? Beh, intanto pare che quello di cancellare dai confini dell’Unione il motore endotermico sia stato rinviato a data da definire. Sarà perché l’eco-evangelico Hans Tiemmerman si è dimesso dalle cariche istituzionali comunitarie per correre verso il premierato di casa sua in Olanda: fatto sta che senza di lui la Commissione si è improvvisamente congelata.

Gli Steps 2025 (Euro VII), 2026 (Revisione dei termini di “Fit for 55”) e soprattutto 2028 (New BER) sembrano rieditati apposta per dare un nuovo respiro al classivovecchio motore dandogli da indossare Ibrido, Kit di conversione e soprattutto alimentazioni alternative. Staremo a vedere. Ma per intanto, dal 1993, per quasi un secolo di storia leggendaria dell’auto europea Bruxelles ha scritto il De Profundis.

Riccardo Bellumori

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